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La pioggia di soccorsi umanitari ha
asciugato il
Continente
nero |
Nel
2007 versati 23mila miliardi di dollari al
Terzo mondo per aiuti umanitari |
DIAMOGLI UN PESCE E MANGERA' UN GIORNO,
INSEGNAMOGLI A PESCARE E MANGERA' TUTTA LA
VITA! |
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luglio 2009 |
Bob
Geldof non perde tempo
nella sua azione distruttiva nei confronti
dell'Africa.
A dire il vero lui pensa
di aiutarla, ma siccome sa fare meglio il
cantante che il politico, quando esce dalla
sua professione
riesce a sparare delle stupidaggini che
ormai non hanno più credibilità, se non
nella cerchia dei residuati utopisti
pacifisti .
Ci spiega il cantante che
"Il futuro dell'Italia è africano" e che
quindi non possiamo togliere di bocca il
cibo ai bambini affamati o togliere gli aghi
dal braccio ai malati. Ci esorta quindi ad
inviare ancora qualche tonnellata di denaro,
magari consegnandolo come abbiamo sempre
fatto, nelle mani dei vari signorotti o
dittatorelli che tanto ne hanno bisogno per
il loro benessere. Da come parla e scrive
sembrerebbe che Bob non sia mai andato in
Africa. Eppure tantissime foto lo ritraggono
insieme ai derelitti di quei paesi. Ciò
nonostante sembra che dell'Africa non abbia
ancora capito nulla.
Sull'articolo scritto in
prima pagina su La Stampa di Torino,
confermando che l'Africa ha bisogno di aiuti
economici dai paesi occidentali , Geldof
afferma anche che il popolo del Continente
nero è "altamente creativo, dinamico,
intellettuale e produttivo". Ergo, dovrebbe
essere in grado di badare a se stesso come
fanno tutti gli altri popoli della terra.
Vero Bobby?
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L'industra
della solidarietà è un
libro di Linda Polman che racconta come
finisce il denaro inviato in Africa,
riportando un esempio molto significativo:
Nel 1967, Emeka Ojukwu,
governatore del Biafra (all'epoca una delle
regioni più ricche della Nigeria) dichiarò
la secessione dal resto del Paese e le
autorità reagirono bloccandogli gli
approvvigionamenti. Scoppiò una guerra
civile, con annessi morti e atroci
sofferenze. Nacque allora il mito della
"carestia del Biafra" (che non era dovuta a
cause naturali). Grazie alle foto dei poveri
bambini martoriati dalle mosche e ai servizi
dei cronisti inviati sul posto, nelle tasche
di Ojukwu piovve un fiume di soldi.
L'Occidente li donava in nome della
solidarietà. Il governo li utilizzò per
finanziare il suo esercito ribelle fino al
1970, anno in cui fuggì in Costa D'Avorio su
un aereo, portandosi dietro la sua Mercedes,
le mogli e tremila chili di bagagli. Eppure
quando si vuole dimostrare che l'Occidente
causa la sofferenza dell'Africa, la vicenda
del Biafra viene citata spesso (a
sproposito).
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Biagio
Bossone, direttore
esecutivo della Banca Mondiale per l'Italia
dichiara a Nigrizia il giornale dei padri
comboniani: "Quando la comunità
internazionale era più generosa, vedi gli
anni '60, arrivava a dare anche lo 0,50% del
Pil, ma queste risorse venivano spesso
utilizzate per fini politici. E' lì che è
nato il seme del debito, che tanto angustia
ancora oggi i Paesi del Sud del mondo".
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« Se volete l'Africa libera, non
cancellate il debito ai paesi poveri » |
« Il
debito dei Paesi africani ? Cancellarlo è
un'autentica sciocchezza.
L'Africa non avrà
futuro, fino a quando dipenderà dagli aiuti
decisi nei vari consessi internazionali » .
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George Ayittey,
ghanese, ha pochi dubbi. È uno dei più
autorevoli esperti di economia e sviluppo
dell'Africa: docente all'American
University, nonché presidente della Free
Africa Foundation, è stato consulente Onu
per le questioni africane. Ma ci sono
alternative all'eliminazione del debito?
« Certo che sì, a patto che gli africani
prendano in mano il loro destino. È una
strada piena di difficoltà, ma è l'unica per
sconfiggere il vero cancro di quel
Continente: la grande corruzione dell'élite
politica ».
Intanto, l'emergenza
chiamata Africa continua e in molti
sollecitano l'Occidente ad aumentare gli
aiuti. « Mi chiedo cosa debba ancora
accadere perché il mondo occidentale capisca
che gli aiuti a pioggia e l'azzeramento del
debito hanno solo l'effetto di rendere più
ricchi i dittatori e le loro tribù » .
Si spieghi meglio. « Secondo uno studio
condotto dall'Unione africana, la corruzione
costa all'Africa 118 miliardi di dollari
all'anno. Ebbene, se i governanti avessero
il coraggio di tagliare questa cifra solo
nella misura del 50% avrebbero a
disposizione una somma di denaro superiore a
quella promessa dalle grandi potenze negli
ultimi vertici del G8 ». |
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Dal quotidiano IL FOGLIO - 29 giugno 2005
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Nel febbraio scorso, a Londra, parlando
davanti ai ministri delle Finanze del G7,
l’ex presidente del Sud Africa, Nelson
Mandela, sollecitava i paesi ricchi ad
accogliere l’invito della Gran Bretagna a
raddoppiare gli aiuti internazionali al
continente africano. Il primo ministro Tony
Blair ha voluto che questa piattaforma fosse
uno dei punti fondamentali della presidenza
inglese del G8. L’obiettivo è di raccogliere
50 miliardi di dollari (38 miliardi di euro)
all’anno sui mercati dei capitali
internazionali per contribuire al
raggiungimento dei Millennium Development
Goals (MDG), indicati nel programma delle
Nazioni Unite: ridurre la povertà e la
mortalità infantile, e migliorare
l’educazione. Gli Stati Uniti privilegiano
un programma di aiuti messo a punto
dall’amministrazione americana – il
Millennium Challenge Accounts (MCA) – che
prevede aiuti ai paesi poveri,
invece che prestiti. |
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In alternativa, sono emerse altre due
proposte |
Quella francese, che prevede forme di
tassazione internazionale sulle transazioni
finanziarie, e quella del Giappone, che
propende per un fondo di 200 milioni di
dollari da destinare alle imprese che in
Africa operano nel settore privato, così da
migliorare il clima degli investimenti e il
grado di solvibilità del continente.
Le proposte per l’Africa: una storia di
fallimenti. Aiutare l’Africa è senz’altro
una causa nobile, ma, dopo svariati decenni
di vuota retorica, di false partenze e di
promesse non mantenute, è subentrato un
profondo scetticismo. Non sono stati certo
gli appelli a mancare. Più o meno ogni dieci
anni, esperti occidentali e africani,
governi, organizzazioni internazionali e
istituzioni finanziarie multilaterali si
riuniscono in pompa magna per annunciare
iniziative grandiose destinate ad affrancare
il continente più povero del mondo dal suo
degrado economico. In tali occasioni ci si
congratula scambiandosi pacche sulle spalle,
poi i delegati fanno ritorno a casa; dopo di
che, tutto tace, o quasi. Risale al 1985 la
Sessione speciale sull’Africa voluta dalle
Nazioni Unite. Seguita, un decennio dopo,
dal varo di una “Iniziativa speciale” per la
cifra di 25 miliardi di dollari. Entrambe si
sono concluse in un fiasco. Anche le agenzie
di sviluppo multilaterali sono intervenute
con i loro generosi progetti. La Banca
mondiale, per esempio, ha stanziato tra il
1981 e il 1991 oltre 20 miliardi di dollari
per favorire la transizione di 29 economie
africane all’economia di mercato. Nel 1994,
la Banca ha compilato una fantomatica lista
di “sei casi di successo” (Gambia, Ghana,
Burkina Faso, Nigeria, Tanzania e Zimbabwe),
dimostrando così di avere una percentuale di
fallimento superiore all’80 %.
Negli ultimi decenni, anche i leader
africani hanno tirato fuori i loro
megaprogetti: il Piano di Azione di Lagos
(1980); il Programma di Priorità africano
per la ripresa economica (1985); il Quadro
alternativo africano in rapporto
all’aggiustamento strutturale (1989); il
Programma di Azione dell’Onu per la ripresa
e lo sviluppo africano; la Nuova Agenda
dell’Onu per lo sviluppo africano; il
Trattato di Abuja (1991), e così via. Tutti
progetti che si sono conclusi in fallimenti
vergognosi.
All’alba del nuovo millennio, i presidenti
di Algeria, Nigeria, Senegal e Sud Africa
hanno reso nota una raffica di nuove
iniziative, successivamente integrate in un
progetto unico: il Nuovo partenariato per lo
sviluppo dell’Africa (NEPAD). Presentato al
vertice del G8, tenutosi a Genova nel 2001,
il NEPAD prevede investimenti occidentali in
Africa per 64 miliardi di dollari.
Per quale motivo l’africano medio dovrebbe a
questo punto riporre qualche speranza nella
Commission for Africa di Tony Blair,
nell’Iniziativa di Sviluppo per il millennio
delle Nazioni Unite, nei MCA di George Bush,
nel NEPAD o in altre iniziative destinate a
curare l’atrofia economica del suo paese?
Nonostante le buone intenzioni, i dati sui
fallimenti passati indicano che chi propone
nuove soluzioni agli interessati non ne sa
più di loro. Il problema numero uno: il
fallimento della leadership. Il colossale
fallimento della leadership continua a
essere l’ostacolo principale allo sviluppo
del continente africano. Dopo
l’indipendenza ottenuta negli anni Sessanta,
i leader africani, salvo rare eccezioni,
hanno creato sistemi economici e politici
la cui fragilità ha posto le basi della
rovina dell’Africa postcoloniale. Un
sistema economico di stampo statalista o
“dirigista”, con i suoi innumerevoli
meccanismi di controllo, ha finito col
determinare la mancanza cronica di prodotti,
e il mercato nero, alimentando un clima di
corruzione e di concussione, ha
sostanzialmente distrutto la base
produttiva. Nel frattempo, il sistema
politico a partito unico e le dittature
militari sono degenerati in tirannia. E
l’enorme concentrazione di potere politico
ed economico nello Stato lo ha trasformato
in Stato “vampiro” o “illegale”. Il
“governo”, inteso come istituzione, ha
cessato di esistere per diventare ostaggio
di un manipolo di banditi e di criminali
incalliti, che usano la macchina dello Stato
per arricchire se stessi, i loro compari e
le tribù a cui appartengono. Tutti gli altri
sono esclusi: è una politica
dell’esclusione.
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In Africa, i
cittadini più ricchi sono i presidenti, i
capi del governo e i loro ministri. |
Molto spesso, il
criminale numero uno è anche il capo dello
Stato. |
Ma questo “Stato vampiro” non è destinato a
durare: si trasformerà in una “Repubblica
delle banane”, per poi implodere quando i
gruppi politicamente esclusi si
ribelleranno: basta pensare ai casi di
Somalia (1993), Ruanda (1994), Burundi
(1995), Zaire (1996), Sierra Leone (1998),
Liberia (1999), e Costa d’Avorio (2000).
Queste mostruosità non sono retaggio
dell’impero coloniale, ma sono imputabili
agli stessi leader africani. E l’impegno a
riformare purtroppo è mancato.
Il processo di democratizzazione in Africa è
stato bloccato dai maneggi politici e dalla
tattica del pugno di ferro. Soltanto in 16
Stati su 54 esiste la democrazia, e la
tirannia politica resta all’ordine del
giorno. |
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I dati relativi alla riforma
economica sono sconfortanti: sono meno di 8
i paesi che possono essere considerati
esempi di “successo economico”. La libertà
intellettuale è quella dell’era stalinista:
solo in 8 paesi i media sono liberi e
indipendenti. Ma, in assenza di una riforma
genuina, ci sono altri Stati africani
pronti a implodere: il processo di
destabilizzazione è evidente nel Ciad, nel
Camerun, nella Repubblica Centrafricana, nel
Togo e nello Zimbabwe. In occasione del
vertice dell’Unione Africana, tenutosi nel
luglio 2004 ad Abuja, in Nigeria, un Kofi
Annan frustrato denunciava il mancato
progresso in direzione degli obiettivi di
sviluppo indicati nel programma dell’Onu,
sottoscritto dai leader africani nel 2000.
Cinque anni prima, il segretario generale
era stato più esplicito, criticando
aspramente i leader in questione e
accusandoli della maggior parte dei
problemi che affliggono il continente. Due
casi scandalosi di corruzione. Prendiamo la
Nigeria. Non si può dire che Olusegun
Obasanjo, il suo presidente, abbia
contribuito granché alla causa degli aiuti e
della cancellazione del debito, considerato
che l’economia del suo paese è la più
disastrata dell’Africa. Lo scorso febbraio,
mentre lui chiedeva un aumento degli aiuti
al Forum economico mondiale di Davos, in
Svizzera, quattro dei suoi governatori
venivano indagati dalla polizia di Londra
per riciclaggio di denaro. Ancora più
imbarazzante il caso del governatore dello
Stato di Plateau, comandante Joshua Dariye,
accusato di aver depositato 1 miliardo e 100
milioni di naira (oltre 90 milioni di
dollari) sui suoi conti personali.
Processato davanti all’Alta Corte federale
di Kaduna dalla Commissione per i reati
economici e finanziari, Dariye, pur essendo
l’imputato principale, nel dicembre 2004 è
stato dichiarato non perseguibile ai sensi
del comma 308 della Costituzione nigeriana,
che prevede l’immunità dei governatori in
carica. Figurarsi. Persino in Senato si
consumano truffe e si
concludono
contratti truccati, e gli eventuali
procedimenti giudiziari vengono insabbiati
dai senatori in carica. Stando al
presidente dell’Istituto dei revisori dei
Conti, comandante Jaiye K. Randle, i
depositi aperti in banche estere da alcuni
cittadini nigeriani ammontano attualmente a
170 miliardi di dollari, cifra di gran lunga
superiore ai 35 miliardi del debito estero
del paese. In Kenya la riforma
costituzionale è ferma, grazie al vigile
intervento della “mafia del monte Kenya”,
come viene chiamata l’élite al potere. La
corruzione dilagante nell’amministrazione
pubblica ha indotto i donatori
internazionali a negare i finanziamenti
stanziati per la lotta all’Aids, nonostante
la malattia, abbia ucciso circa un milione e
mezzo di persone dal 1984, mentre quasi
altrettanti, secondo una stima del governo,
sono i contagiati. Al ministero della
Sanità, il peculato è una consuetudine. Una
recente inchiesta ha accertato l’esistenza
di “lavoratori fantasma”, i cui stipendi,
per una cifra annuale pari a 6 milioni e
mezzo di dollari, finirebbero nelle tasche
dei veri dipendenti. Il 20 giugno 2004, lo
stesso ministero ha pagato 140 milioni di
scellini (1,8 milioni di dollari) per
acquistare macchine per radiografia da
destinare al Kenyatta National Hospital,
dove non sono mai arrivate. L’anno scorso,
il paese è stato travolto dagli scandali per
gli illeciti commessi in diversi ministeri,
ma, un caso dopo l’altro, nessun
provvedimento è stato preso e i
ministri coinvolti sono stati semplicemente
rimossi: non ci sono stati procedimenti
giudiziari per recuperare il maltolto. I
perché del disastro africano. La verità è
che in Africa si ruba sistematicamente.
Nell’agosto 2004, in un rapporto dell’Unione
africana, si leggeva che il continente perde
ogni anno una cifra valutata in 148 miliardi
di dollari, che va ad alimentare la
corruzione – cifra che rappresenta il 25
per cento del suo prodotto interno lordo.
Due anni prima, in un incontro svoltosi ad
Addis Abeba, in Etiopia, Obasanjo affermava
che “nei decenni successivi
all’indipendenza, i capi africani corrotti
hanno sottratto al paese almeno 140 miliardi
di dollari (95 milioni di lire sterline)”
(The Independent, 14 giugno 2002).
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La cifra, tuttavia, è ampiamente
sottovalutata. Stando ai calcoli delle
Nazioni Unite, infatti, in un solo anno, il
1991, ben 200 miliardi di dollari sono stati
trasferiti su conti esteri, ovvero il 90 per
cento del Pil dell’Africa subsahariana. Le
guerre civili continuano a devastare le
economie africane, con un costo di almeno
15 miliardi in termini di produzione
perduta, di distruzione delle infrastrutture
e di crisi dei rifugiati. Le guerre civili
sono guerre di potere, che non rispettano i
confini artificiali tracciati al tempo
delle colonie, e sono generate
dall’incrollabile rifiuto dei leader
africani di rinunciare al potere politico o
di condividerlo. La crisi dello Zimbabwe,
per esempio, si è tradotta in un costo
immane per l’Africa. Gli investitori esteri
hanno abbandonato la regione e più di 4
milioni di abitanti hanno lasciato il paese,
tra cui 60.000 tra medici e altri
professionisti. Secondo The Observer di
Londra (30 settembre 2001), il collasso
economico dello Zimbabwe ha provocato danni
per 37 miliardi di dollari al Sud Africa e
agli altri paesi confinanti. |
L’Africa soffre la fame perché la sua
agricoltura è stata distrutta da guerre
civili assurde, dalla priorità accordata
all’industria, e da politiche stataliste
sbagliate di controllo dei prezzi. Nel
2000, le importazioni di derrate alimentari
raggiungevano i 18,7 miliardi di dollari,
una cifra di poco superiore ai 18,6
miliardi di dollari versati dai paesi
donatori. E’ evidente che le risorse di cui
l’Africa ha bisogno per crescere possono
essere reperite al suo interno: basterebbe
che i suoi leader fossero disposti a
riformare i loro esecrabili sistemi
economici e politici, a privilegiare
l’agricoltura nell’ambito delle politiche
di sviluppo, a eliminare la corruzione e a
investire i loro capitali – leciti o meno –
in Africa.
Ma la leadership
non pare avere alcuna intenzione di attuare
questo genere di cambiamenti: preferisce,
piuttosto, guardare oltre confine e battere
cassa in occidente. E, a complicare il
problema, l’occidente allarga i cordoni
della borsa e concede quanto gli viene
richiesto. Un senso di colpa eccessivo e
fuorviante. Oppresso da una sensibilità
eccessiva nei confronti della questione
razziale e dai sensi di colpa per le
iniquità della tratta degli schiavi e del
colonialismo, l’occidente è sempre stato
restio a parlare con franchezza dell’Africa. |
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Incapaci di
distinguere tra leader africani e cittadini
africani, gli occidentali evitano di
criticare i primi, nel timore di essere
tacciati di “razzismo” o accusati di
“infierire sulla vittima”. Questa estrema
sensibilità mette i leader africani al
riparo dalle critiche e involontariamente
li aiuta a perpetuare politiche fuorvianti e
scelte sbagliate. Peggio ancora, le
politiche occidentali nei confronti
dell’Africa hanno sempre avuto come
interlocutori privilegiati i suoi leader.
Gli occidentali ritengono, ingenuamente, che
il modo migliore di aiutare il popolo
africano consista nel concedere denaro ai
suoi despoti corrotti o nel realizzare
“partnership” con essi. Guardiamo, per
esempio, alla Somalia, il paese che è stato
definito il “cimitero degli aiuti”. I 114
progetti sponsorizzati dal governo italiano
in Somalia tra il 1981 e il 1990 sono
costati più di un miliardo di dollari, ma
salvo rare eccezioni sono stati fondi in
gran parte sprecati: basta pensare ai 250
milioni di dollari spesi per costruire la
strada di Garoe-Bosao, che percorre 450
chilometri di deserto attraversato
esclusivamente da nomadi a piedi. Piero
Ugolini, un agronomo fiorentino che ha
lavorato per l’unità tecnica
dell’ambasciata italiana di Mogadiscio dal
1986 al 1990, sostiene che la maggior parte
dei progetti di cooperazione italiani è
stata realizzata senza tenere conto degli
effetti sulla popolazione locale. |
Sei istituzioni cruciali. Il modo migliore
di aiutare l’Africa è conferire diritti ai
suoi cittadini. L’approccio centrato sui
leader deve essere smantellato e sostituito
da un sistema basato sulle istituzioni. E
le sei istituzioni qui di seguito sono
quelle decisive:
• Una banca centrale indipendente: per
garantire stabilità monetaria ed economica e
per fermare la fuga di capitali
dall’Africa. La Banca mondiale, per esempio,
farebbe bene ad astenersi dal trattare con
paesi
africani dove non esiste una banca centrale
indipendente. E’ proprio grazie al controllo
sulle banche centrali, infatti, che i
dittatori corrotti hanno potuto arricchirsi
e trasferire i loro patrimoni all’estero.
• Una magistratura indipendente: essenziale
ai fini dello stato di diritto. Potrebbe
anche essere presa in considerazione
l’ipotesi di una rotazione di giudici su
base regionale. Va però segnalato che nel
dicembre 2001, Mokhtar Yahyaoui, presidente
del Centre de Tunis pour l’Indépendence de
la Justice, è stato rimosso dall’incarico
di giudice per avere invocato il rispetto
del principio costituzionale
dell’indipendenza della magistratura.
• Media liberi e indipendenti: per garantire
la libera circolazione delle informazioni.
Il primo passo per risolvere un problema
sociale consiste nel denunciarlo, e questo
spetta a chi lavora nel campo
dell’informazione. I media controllati o
posseduti dallo Stato non denunciano
corruzione, repressioni, violazioni dei
diritti umani o altri crimini contro
l’umanità: se si tiene la gente all’oscuro,
è più facile depredarla e reprimerla. I
media non devono essere solo sottratti al
controllo del governo, ma dovrebbero essere
la prima attività strategica dismessa dallo
Stato come condizione per ottenere aiuti
dall’estero.
• Una commissione elettorale indipendente:
per evitare situazioni in cui sono i despoti
africani a scrivere le regole elettorali, a
nominare una cricca di delatori servili come
commissari alle elezioni, a sbattere in
galera i leader dell’opposizione e a indire
elezioni fasulle per conservare il potere.
• Un’amministrazione statale professionale
ed efficiente: con il compito di garantire i
servizi sociali essenziali sulla base dei
bisogni della popolazione e non dell’etnia o
dell’affiliazione politica.
• La creazione di forze armate e di
sicurezza neutrali e professionali. Diamo
agli africani queste sei istituzioni e
saranno loro a risolvere più dell’80 per
cento dei problemi del continente,
stimolando il cambiamento dall’interno. Va
da sé che le istituzioni suddette non
possono essere create dai leader al potere,
dato l’evidente conflitto d’interesse. E’ un
compito, questo, che spetta alla società
civile. L’indipendenza dei media fa la
differenza. Nel dicembre 2004, mentre gli
ucraini manifestavano davanti agli edifici
del parlamento e del governo per protestare
contro i brogli elettorali, i cittadini del
Ghana si recavano a votare in uno dei
contesti più pacifici e sereni della storia
recente del paese, o meglio, dell’intera
Africa. I media internazionali non ne hanno
parlato, probabilmente perché non si sono
verificati episodi di violenza o
manifestazioni di piazza. Quali i motivi
della differenza tra i due paesi? In
Ucraina, la commissione elettorale e i media
erano controllati dallo Stato, con
l’eccezione di alcuni bloggers privati su
Internet. Il risultato è stato un voto
falsato che ha spinto i cittadini indignati
nelle strade per dar vita alla “rivoluzione
arancione”. Per fortuna dei manifestanti, le
forze di sicurezza hanno agito con
professionalità e non hanno fatto fuoco. Una
Corte suprema abbastanza indipendente ha
invalidato i risultati, sancendo la
possibilità di tornare a votare.
In Ghana, al contrario, la commissione
elettorale era indipendente e i media
privati erano orgogliosamente e tenacemente
liberi – soprattutto le emittenti private a
modulazione di frequenza e i quotidiani
indipendenti. Nelle elezioni del 2000 questi
media hanno svolto un ruolo impareggiabile,
inviando frotte di reporter con il compito
di vigilare i seggi elettorali. Qualsiasi
irregolarità veniva istantaneamente
riferita via radio, così che i funzionari
addetti si precipitavano sulla scena per
sistemare la questione. Prima delle
elezioni queste emittenti, grazie a
trasmissioni con collegamenti in diretta,
avevano fornito agli ascoltatori
informazioni non filtrate e sollecitato la
gente a esercitare il diritto di voto. Dopo
aver seguito le elezioni nel Ghana, Thomas
Friedman ha scritto sul New York Times:
“Concediamo gli aiuti, tutti i prestiti
possibili dell’Fmi e della Banca mondiale, e
il condono del debito, a condizione però
che i governi africani permettano emittenti
radio libere. Gli africani faranno il
resto”.
In molti altri paesi africani questo
pacifico processo elettorale non si è
verificato perché i loro leader controllano
le istituzioni chiave e hanno stretto
“accordi fatali” con i donatori occidentali.
Nel 2002, mentre i leader africani erano in
viaggio per Kananaskis, dove al vertice del
G8 avrebbero presentato i programmi del
NEPAD per ottenere finanziamenti, una
ragazza keniota disoccupata, Mercy Muigai,
ha così commentato la situazione:
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“Questa gente (leader ed élite africani)
non fa altro che parlare, parlare, parlare. |
Quando poi riesce a ottenere soldi dai wazungu
(uomini bianchi) se li intasca. E noi? |
Non abbiamo da mangiare. Non abbiamo
scuole. Non abbiamo futuro. Ci permettono
giusto di morire” |
(The Washington Times, 28
giugno 2002). |
George B. N. Ayittey |
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