Benvenuti nel mio sito e buona lettura!

  HOME

Se vuoi inviare un tuo commento

MAIL

Se vuoi leggere altri commenti

FORUM

 
 

La pioggia di soccorsi umanitari ha asciugato il Continente nero

Nel 2007 versati 23mila miliardi di dollari al Terzo mondo per aiuti umanitari
  DIAMOGLI UN PESCE E MANGERA' UN GIORNO, INSEGNAMOGLI A PESCARE E MANGERA' TUTTA LA VITA! 
 
luglio 2009

 Bob Geldof  non perde tempo nella sua azione distruttiva nei confronti dell'Africa.

A dire il vero lui pensa di aiutarla, ma siccome sa fare meglio il cantante che il politico, quando esce dalla sua professione riesce a sparare delle stupidaggini che ormai non hanno più credibilità, se non nella cerchia dei residuati utopisti pacifisti .

Ci spiega il cantante che "Il futuro dell'Italia è africano" e che quindi non possiamo togliere di bocca il cibo ai bambini affamati o togliere gli aghi dal braccio ai malati. Ci esorta quindi ad inviare ancora qualche tonnellata di denaro, magari consegnandolo come abbiamo sempre fatto, nelle mani dei vari signorotti o dittatorelli che tanto ne hanno bisogno per il loro benessere. Da come parla e scrive sembrerebbe che Bob non sia mai andato in Africa. Eppure tantissime foto lo ritraggono insieme ai derelitti di quei paesi. Ciò nonostante sembra che dell'Africa non abbia ancora capito nulla.

Sull'articolo scritto in prima pagina su La Stampa di Torino, confermando che l'Africa ha bisogno di aiuti economici dai paesi occidentali , Geldof afferma anche che il popolo del Continente nero è "altamente creativo, dinamico, intellettuale e produttivo". Ergo, dovrebbe essere in grado di badare a se stesso come fanno tutti gli altri popoli della terra. Vero Bobby?

 L'industra della solidarietà  è un libro di Linda Polman che racconta come finisce il denaro inviato in Africa, riportando un esempio molto significativo:

Nel 1967, Emeka Ojukwu, governatore del Biafra (all'epoca una delle regioni più ricche della Nigeria) dichiarò la secessione dal resto del Paese e le autorità reagirono bloccandogli gli approvvigionamenti. Scoppiò una guerra civile, con annessi morti e atroci sofferenze. Nacque allora il mito della "carestia del Biafra" (che non era dovuta a cause naturali). Grazie alle foto dei poveri bambini martoriati dalle mosche e ai servizi dei cronisti inviati sul posto, nelle tasche di Ojukwu piovve un fiume di soldi. L'Occidente li donava in nome della solidarietà. Il governo li utilizzò per finanziare il suo esercito ribelle fino al 1970, anno in cui fuggì in Costa D'Avorio su un aereo, portandosi dietro la sua Mercedes, le mogli e tremila chili di bagagli. Eppure quando si vuole dimostrare che l'Occidente causa la sofferenza dell'Africa, la vicenda del Biafra viene citata spesso (a sproposito).

 

 Biagio Bossone,  direttore esecutivo della Banca Mondiale per l'Italia dichiara a Nigrizia il giornale dei padri comboniani: "Quando la comunità internazionale era più generosa, vedi gli anni '60, arrivava a dare anche lo 0,50% del Pil, ma queste risorse venivano spesso utilizzate per fini politici. E' lì che è nato il seme del debito, che tanto angustia ancora oggi i Paesi del Sud del mondo".

 

« Se volete l'Africa libera, non cancellate il debito ai paesi poveri »

« Il debito dei Paesi africani ? Cancellarlo è un'autentica sciocchezza.

L'Africa non avrà futuro, fino a quando dipenderà dagli aiuti decisi nei vari consessi internazionali » .

 George Ayittey, ghanese,  ha pochi dubbi. È uno dei più autorevoli esperti di economia e sviluppo dell'Africa: docente all'American University, nonché presidente della Free Africa Foundation, è stato consulente Onu per le questioni africane. Ma ci sono alternative all'eliminazione del debito? « Certo che sì, a patto che gli africani prendano in mano il loro destino. È una strada piena di difficoltà, ma è l'unica per sconfiggere il vero cancro di quel Continente: la grande corruzione dell'élite politica ».

Intanto, l'emergenza chiamata Africa continua e in molti sollecitano l'Occidente ad aumentare gli aiuti. « Mi chiedo cosa debba ancora accadere perché il mondo occidentale capisca che gli aiuti a pioggia e l'azzeramento del debito hanno solo l'effetto di rendere più ricchi i dittatori e le loro tribù » . Si spieghi meglio. « Secondo uno studio condotto dall'Unione africana, la corruzione costa all'Africa 118 miliardi di dollari all'anno. Ebbene, se i governanti avessero il coraggio di tagliare questa cifra solo nella misura del 50% avrebbero a disposizione una somma di denaro superiore a quella promessa dalle grandi potenze negli ultimi vertici del G8 ».

 Dal quotidiano IL FOGLIO - 29 giugno 2005

Nel febbraio scorso, a Londra, parlando davanti ai ministri delle Finanze del G7, l’ex presidente del  Sud Africa, Nelson Mandela, sollecitava i paesi ricchi ad accogliere l’invito della Gran Bretagna a raddoppiare gli aiuti internazionali al continente africano. Il primo ministro Tony Blair ha voluto che questa piattaforma fosse uno dei punti fondamentali della presidenza inglese del G8. L’obiettivo è di raccogliere 50 miliardi di dollari (38 miliardi di euro) all’anno sui mercati dei capitali internazionali per contribuire al raggiungimento dei Millennium Development Goals (MDG), indicati nel programma delle Nazioni Unite: ridurre la povertà e la mortalità infantile, e migliorare l’educazione. Gli Stati Uniti privilegiano un programma di aiuti messo a punto dall’amministrazione americana – il Millennium Challenge Accounts (MCA) – che prevede aiuti ai paesi poveri, invece che prestiti.

 

 In alternativa, sono emerse altre due proposte

Quella francese, che prevede forme di tassazione internazionale sulle transazioni finanziarie, e quella del Giappone, che propende per un fondo di 200 milioni di dollari da destinare alle imprese che in Africa operano nel settore privato, così da migliorare il clima degli investimenti e il grado di solvibilità del continente.

Le proposte per l’Africa: una storia di fallimenti. Aiutare l’Africa è senz’altro una causa nobile, ma, dopo svariati decenni di vuota retorica, di false partenze e di promesse non mantenute, è subentrato un profondo scetticismo. Non sono stati certo gli appelli a mancare. Più o meno ogni dieci anni, esperti occidentali e africani, governi, organizzazioni internazionali e istituzioni finanziarie multilaterali si riuniscono in pompa magna per annunciare iniziative grandiose destinate ad affrancare il continente più povero del mondo dal suo degrado economico. In tali occasioni ci si congratula scambiandosi pacche sulle spalle, poi i delegati fanno ritorno a casa; dopo di che, tutto tace, o quasi. Risale al 1985 la Sessione speciale sull’Africa voluta dalle Nazioni Unite. Seguita, un decennio dopo, dal varo di una “Iniziativa speciale” per la cifra di 25 miliardi di dollari. Entrambe si sono concluse in un fiasco. Anche le agenzie di sviluppo multilaterali sono intervenute con i loro generosi progetti. La Banca mondiale, per esempio, ha stanziato tra il 1981 e il 1991 oltre 20 miliardi di dollari per favorire la transizione di 29 economie africane all’economia di mercato. Nel 1994, la Banca ha compilato una fantomatica lista di “sei casi di successo” (Gambia, Ghana, Burkina Faso, Nigeria, Tanzania e Zimbabwe), dimostrando così di avere una percentuale di fallimento superiore all’80 %.

Negli ultimi decenni, anche i leader africani hanno tirato fuori i loro megaprogetti: il Piano di Azione di Lagos (1980); il Programma di Priorità africano per la ripresa economica (1985); il Quadro alternativo  africano in rapporto all’aggiustamento strutturale (1989); il Programma di Azione dell’Onu per la ripresa e lo sviluppo africano; la Nuova Agenda dell’Onu per lo sviluppo africano; il Trattato di Abuja (1991), e così via. Tutti progetti che si sono conclusi in fallimenti vergognosi.

All’alba del nuovo millennio, i presidenti di Algeria, Nigeria, Senegal e Sud Africa hanno reso nota  una raffica di nuove iniziative, successivamente integrate in un progetto unico: il Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (NEPAD). Presentato al vertice del G8, tenutosi a Genova nel 2001, il NEPAD prevede investimenti occidentali in Africa per 64 miliardi di dollari.

Per quale motivo l’africano medio dovrebbe a questo punto riporre qualche speranza nella Commission for Africa di Tony Blair, nell’Iniziativa di Sviluppo per il millennio delle Nazioni Unite, nei MCA di George Bush, nel NEPAD o in altre iniziative destinate a curare l’atrofia economica del suo paese?  Nonostante le buone intenzioni, i dati sui fallimenti passati indicano che chi propone nuove soluzioni  agli interessati non ne sa più di loro. Il problema numero uno: il fallimento della leadership. Il colossale  fallimento della leadership continua a essere l’ostacolo principale allo sviluppo del continente africano.  Dopo l’indipendenza ottenuta negli anni Sessanta, i leader africani, salvo rare eccezioni, hanno creato  sistemi economici e politici la cui fragilità ha posto le basi della rovina dell’Africa postcoloniale. Un  sistema economico di stampo statalista o “dirigista”, con i suoi innumerevoli meccanismi di controllo,  ha finito col determinare la mancanza cronica di prodotti, e il mercato nero, alimentando un clima di  corruzione e di concussione, ha sostanzialmente distrutto la base produttiva. Nel frattempo, il sistema  politico a partito unico e le dittature militari sono degenerati in tirannia. E l’enorme concentrazione di  potere politico ed economico nello Stato lo ha trasformato in Stato “vampiro” o “illegale”. Il  “governo”, inteso come istituzione, ha cessato di esistere per diventare ostaggio di un manipolo di banditi e di criminali incalliti, che usano la macchina dello Stato per arricchire se stessi, i loro compari  e le tribù a cui appartengono. Tutti gli altri sono esclusi: è una politica dell’esclusione.

 

In Africa, i  cittadini più ricchi sono i presidenti, i capi del governo e i loro ministri.

 Molto spesso, il criminale numero uno è anche il capo dello Stato.

Ma questo “Stato vampiro” non è destinato a durare: si  trasformerà in una “Repubblica delle banane”, per poi implodere quando i gruppi politicamente esclusi  si ribelleranno: basta pensare ai casi di Somalia (1993), Ruanda (1994), Burundi (1995), Zaire (1996),  Sierra Leone (1998), Liberia (1999), e Costa d’Avorio (2000). Queste mostruosità non sono retaggio dell’impero coloniale, ma sono imputabili agli stessi leader africani. E l’impegno a riformare purtroppo  è mancato.

Il processo di democratizzazione in Africa è stato bloccato dai maneggi politici e dalla tattica del pugno di ferro. Soltanto in 16 Stati su 54 esiste la democrazia, e la tirannia politica resta  all’ordine del giorno.

I dati relativi alla riforma economica sono sconfortanti: sono meno di 8 i paesi  che possono essere considerati esempi di “successo economico”. La libertà intellettuale è quella  dell’era stalinista: solo in 8 paesi i media sono liberi e indipendenti. Ma, in assenza di una riforma  genuina, ci sono altri Stati africani pronti a implodere: il processo di destabilizzazione è evidente nel  Ciad, nel Camerun, nella Repubblica Centrafricana, nel Togo e nello Zimbabwe. In occasione del  vertice dell’Unione Africana, tenutosi nel luglio 2004 ad Abuja, in Nigeria, un Kofi Annan frustrato  denunciava il mancato progresso in direzione degli obiettivi di sviluppo indicati nel programma dell’Onu, sottoscritto dai leader africani nel 2000.

Cinque anni prima, il segretario generale era stato  più esplicito, criticando aspramente i leader in questione e accusandoli della maggior parte dei  problemi che affliggono il continente. Due casi scandalosi di corruzione. Prendiamo la Nigeria. Non si  può dire che Olusegun Obasanjo, il suo presidente, abbia contribuito granché alla causa degli aiuti e della cancellazione del debito, considerato che l’economia del suo paese è la più disastrata dell’Africa.  Lo scorso febbraio, mentre lui chiedeva un aumento degli aiuti al Forum economico mondiale di  Davos, in Svizzera, quattro dei suoi governatori venivano indagati dalla polizia di Londra per  riciclaggio di denaro. Ancora più imbarazzante il caso del governatore dello Stato di Plateau,  comandante Joshua Dariye, accusato di aver depositato 1 miliardo e 100 milioni di naira (oltre 90 milioni di dollari) sui suoi conti personali. Processato davanti all’Alta Corte federale di Kaduna dalla  Commissione per i reati economici e finanziari, Dariye, pur essendo l’imputato principale, nel dicembre 2004 è stato dichiarato non perseguibile ai sensi del comma 308 della Costituzione nigeriana, che prevede l’immunità dei governatori in carica. Figurarsi. Persino in Senato si consumano truffe e si concludono contratti truccati, e gli eventuali procedimenti giudiziari vengono insabbiati dai senatori in carica.  Stando al presidente dell’Istituto dei revisori dei Conti, comandante Jaiye K. Randle, i depositi aperti in banche  estere da alcuni cittadini nigeriani ammontano attualmente a 170 miliardi di dollari, cifra di gran lunga superiore  ai 35 miliardi del debito estero del paese. In Kenya la riforma costituzionale è ferma, grazie al vigile intervento  della “mafia del monte Kenya”, come viene chiamata l’élite al potere. La corruzione dilagante nell’amministrazione pubblica ha indotto i donatori internazionali a negare i finanziamenti stanziati per la lotta  all’Aids, nonostante la malattia, abbia ucciso circa un milione e mezzo di persone dal 1984, mentre quasi  altrettanti, secondo una stima del governo, sono i contagiati. Al ministero della Sanità, il peculato è una  consuetudine. Una recente inchiesta ha accertato l’esistenza di “lavoratori fantasma”, i cui stipendi, per una cifra  annuale pari a 6 milioni e mezzo di dollari, finirebbero nelle tasche dei veri dipendenti. Il 20 giugno 2004, lo  stesso ministero ha pagato 140 milioni di scellini (1,8 milioni di dollari) per acquistare macchine per radiografia  da destinare al Kenyatta National Hospital, dove non sono mai arrivate. L’anno scorso, il paese è stato travolto dagli scandali per gli illeciti commessi in diversi ministeri, ma, un caso dopo l’altro, nessun provvedimento è  stato preso e i ministri coinvolti sono stati semplicemente rimossi: non ci sono stati procedimenti  giudiziari per recuperare il maltolto. I perché del disastro africano. La verità è che in Africa si ruba  sistematicamente. Nell’agosto 2004, in un rapporto dell’Unione africana, si leggeva che il continente perde ogni anno una cifra valutata in 148 miliardi di dollari, che va ad alimentare la corruzione – cifra  che rappresenta il 25 per cento del suo prodotto interno lordo. Due anni prima, in un incontro svoltosi  ad Addis Abeba, in Etiopia, Obasanjo affermava che “nei decenni successivi all’indipendenza, i capi  africani corrotti hanno sottratto al paese almeno 140 miliardi di dollari (95 milioni di lire sterline)”  (The Independent, 14 giugno 2002).

La cifra, tuttavia, è ampiamente sottovalutata. Stando ai calcoli delle Nazioni Unite, infatti, in un solo  anno, il 1991, ben 200 miliardi di dollari sono stati trasferiti su conti esteri, ovvero il 90 per cento del  Pil dell’Africa subsahariana. Le guerre civili continuano a devastare le economie africane, con un costo  di almeno 15 miliardi in termini di produzione perduta, di distruzione delle infrastrutture e di crisi dei  rifugiati. Le guerre civili sono guerre di potere, che non rispettano i confini artificiali tracciati al tempo  delle colonie, e sono generate dall’incrollabile rifiuto dei leader africani di rinunciare al potere politico  o di condividerlo. La crisi dello Zimbabwe, per esempio, si è tradotta in un costo immane per l’Africa.  Gli investitori esteri hanno abbandonato la regione e più di 4 milioni di abitanti hanno lasciato il paese,  tra cui 60.000 tra medici e altri professionisti. Secondo The Observer di Londra (30 settembre 2001), il  collasso economico dello Zimbabwe ha provocato danni per 37 miliardi di dollari al Sud Africa e agli  altri paesi confinanti.

L’Africa soffre la fame perché la sua agricoltura è stata distrutta da guerre civili  assurde, dalla priorità accordata all’industria, e da politiche stataliste sbagliate di controllo dei prezzi.  Nel 2000, le importazioni di derrate alimentari raggiungevano i 18,7 miliardi di dollari, una cifra di  poco superiore ai 18,6 miliardi di dollari versati dai paesi donatori. E’ evidente che le risorse di cui  l’Africa ha bisogno per crescere possono essere reperite al suo interno: basterebbe che i suoi leader  fossero disposti a riformare i loro esecrabili sistemi economici e politici, a privilegiare l’agricoltura  nell’ambito delle politiche di sviluppo, a eliminare la corruzione e a investire i loro capitali – leciti o meno – in Africa.

Ma la leadership non pare avere alcuna intenzione di attuare questo genere di  cambiamenti: preferisce, piuttosto, guardare oltre confine e battere cassa in occidente. E, a complicare  il problema, l’occidente allarga i cordoni della borsa e concede quanto gli viene richiesto. Un senso di  colpa eccessivo e fuorviante. Oppresso da una sensibilità eccessiva nei confronti della questione  razziale e dai sensi di colpa per le iniquità della tratta degli schiavi e del colonialismo, l’occidente è sempre stato restio a parlare con franchezza dell’Africa.

Incapaci di distinguere tra leader africani e  cittadini africani, gli occidentali evitano di criticare i primi, nel timore di essere tacciati di “razzismo” o  accusati di “infierire sulla vittima”. Questa estrema sensibilità mette i leader africani al riparo dalle  critiche e involontariamente li aiuta a perpetuare politiche fuorvianti e scelte sbagliate. Peggio ancora,  le politiche occidentali nei confronti dell’Africa hanno sempre avuto come interlocutori privilegiati i  suoi leader. Gli occidentali ritengono, ingenuamente, che il modo migliore di aiutare il popolo africano  consista nel concedere denaro ai suoi despoti corrotti o nel realizzare “partnership” con essi.  Guardiamo, per esempio, alla Somalia, il paese che è stato definito il “cimitero degli aiuti”. I 114  progetti sponsorizzati dal governo italiano in Somalia tra il 1981 e il 1990 sono costati più di un  miliardo di dollari, ma salvo rare eccezioni sono stati fondi in gran parte sprecati: basta pensare ai 250  milioni di dollari spesi per costruire la strada di Garoe-Bosao, che percorre 450 chilometri di deserto attraversato esclusivamente da nomadi a piedi. Piero Ugolini, un agronomo fiorentino che ha lavorato  per l’unità tecnica dell’ambasciata italiana di Mogadiscio dal 1986 al 1990, sostiene che la maggior  parte dei progetti di cooperazione italiani è stata realizzata senza tenere conto degli effetti sulla   popolazione locale.

Sei istituzioni cruciali. Il modo migliore di aiutare l’Africa è conferire diritti ai suoi cittadini.  L’approccio centrato sui leader deve essere smantellato e sostituito da un sistema basato sulle  istituzioni. E le sei istituzioni qui di seguito sono quelle decisive:

• Una banca centrale indipendente: per garantire stabilità monetaria ed economica e per fermare la fuga  di capitali dall’Africa. La Banca mondiale, per esempio, farebbe bene ad astenersi dal trattare con paesi

africani dove non esiste una banca centrale indipendente. E’ proprio grazie al controllo sulle banche  centrali, infatti, che i dittatori corrotti hanno potuto arricchirsi e trasferire i loro patrimoni all’estero.

• Una magistratura indipendente: essenziale ai fini dello stato di diritto. Potrebbe anche essere presa in  considerazione l’ipotesi di una rotazione di giudici su base regionale. Va però segnalato che nel  dicembre 2001, Mokhtar Yahyaoui, presidente del Centre de Tunis pour l’Indépendence de la Justice, è  stato rimosso dall’incarico di giudice per avere invocato il rispetto del principio costituzionale  dell’indipendenza della magistratura.

• Media liberi e indipendenti: per garantire la libera circolazione delle informazioni. Il primo passo per  risolvere un problema sociale consiste nel denunciarlo, e questo spetta a chi lavora nel campo  dell’informazione. I media controllati o posseduti dallo Stato non denunciano corruzione, repressioni,  violazioni dei diritti umani o altri crimini contro l’umanità: se si tiene la gente all’oscuro, è più facile  depredarla e reprimerla. I media non devono essere solo sottratti al controllo del governo, ma dovrebbero essere la prima attività strategica dismessa dallo Stato come condizione per ottenere aiuti  dall’estero.

• Una commissione elettorale indipendente: per evitare situazioni in cui sono i despoti africani a  scrivere le regole elettorali, a nominare una cricca di delatori servili come commissari alle elezioni, a  sbattere in galera i leader dell’opposizione e a indire elezioni fasulle per conservare il potere.

• Un’amministrazione statale professionale ed efficiente: con il compito di garantire i servizi sociali  essenziali sulla base dei bisogni della popolazione e non dell’etnia o dell’affiliazione politica.

• La creazione di forze armate e di sicurezza neutrali e professionali. Diamo agli africani queste sei  istituzioni e saranno loro a risolvere più dell’80 per cento dei problemi del continente, stimolando il  cambiamento dall’interno. Va da sé che le istituzioni suddette non possono essere create dai leader al  potere, dato l’evidente conflitto d’interesse. E’ un compito, questo, che spetta alla società civile. L’indipendenza dei media fa la differenza. Nel dicembre 2004, mentre gli ucraini manifestavano  davanti agli edifici del parlamento e del governo per protestare contro i brogli elettorali, i cittadini del  Ghana si recavano a votare in uno dei contesti più pacifici e sereni della storia recente del paese, o  meglio, dell’intera Africa. I media internazionali non ne hanno parlato, probabilmente perché non si sono verificati episodi di violenza o manifestazioni di piazza. Quali i motivi della differenza tra i due  paesi? In Ucraina, la commissione elettorale e i media erano controllati dallo Stato, con l’eccezione di  alcuni bloggers privati su Internet. Il risultato è stato un voto falsato che ha spinto i cittadini indignati  nelle strade per dar vita alla “rivoluzione arancione”. Per fortuna dei manifestanti, le forze di sicurezza  hanno agito con professionalità e non hanno fatto fuoco. Una Corte suprema abbastanza indipendente  ha invalidato i risultati, sancendo la possibilità di tornare a votare.

In Ghana, al contrario, la commissione elettorale era indipendente e i media privati erano orgogliosamente e tenacemente liberi – soprattutto le emittenti private a modulazione di frequenza e i  quotidiani indipendenti. Nelle elezioni del 2000 questi media hanno svolto un ruolo impareggiabile, inviando frotte di reporter con il compito di vigilare i seggi elettorali. Qualsiasi irregolarità veniva  istantaneamente riferita via radio, così che i funzionari addetti si precipitavano sulla scena per  sistemare la questione. Prima delle elezioni queste emittenti, grazie a trasmissioni con collegamenti in  diretta, avevano fornito agli ascoltatori informazioni non filtrate e sollecitato la gente a esercitare il  diritto di voto. Dopo aver seguito le elezioni nel Ghana, Thomas Friedman ha scritto sul New York  Times: “Concediamo gli aiuti, tutti i prestiti possibili dell’Fmi e della Banca mondiale, e il condono del  debito, a condizione però che i governi africani permettano emittenti radio libere. Gli africani faranno il  resto”.

In molti altri paesi africani questo pacifico processo elettorale non si è verificato perché i loro leader  controllano le istituzioni chiave e hanno stretto “accordi fatali” con i donatori occidentali. Nel 2002,  mentre i leader africani erano in viaggio per Kananaskis, dove al vertice del G8 avrebbero presentato i  programmi del NEPAD per ottenere finanziamenti, una ragazza keniota disoccupata, Mercy Muigai, ha  così commentato la situazione:

“Questa gente (leader ed élite africani) non fa altro che parlare, parlare, parlare.

Quando poi riesce a ottenere soldi dai wazungu (uomini bianchi) se li intasca. E noi?

  Non abbiamo da mangiare. Non abbiamo scuole. Non abbiamo futuro. Ci permettono giusto di morire”

(The Washington Times, 28 giugno 2002). 

George B. N. Ayittey