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Ovvero:
"ALTRI CONFLITTI DI INTERESSI"
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l'AMICO DI DELBONO FA
FORTUNA IN 4 ANNI |
Il Giornale - 17 ottobre 2009 |
Dubbi sui bilanci della Connex Card, la
società di Mirco Divani, possessore del
bancomat affidato dal sindaco di Bologna
all’ex amante.
L’azienda è in affanno, ma ottiene senza
appalto varie commesse dalla Regione. E il
fatturato schizza ad oltre 350mila euro
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Tutte ipotesi, naturalmente, che sono al
vaglio della Procura di Bologna che potrebbe
aprire un nuovo fascicolo di inchiesta
proprio sul misterioso bancomat di Mirco
Divani, vecchio compagno Pci e amico di «salsicciate»
dell’ex sindaco. Una tessera magnetica che
Divani ha dato a Delbono e che questi ha
girato a Cinzia Cracchi. «Soldi che avevo
anticipato io a Divani per un affare
immobiliare non andato in porto, mi pare
10mila euro», ha detto Delbono ai
giornalisti al termine dell’interrogatorio
di sabato.
Spiegazione che non spiega nulla. Il
bancomat poteva prelevare fino a 1.000 euro
il mese ed è stato usato dalla signora per
quattro anni hanno fruttato 50mila euro, le
somme non tornano. È stato disattivato nel
periodo in cui è finita la love-story, e
subito dopo Delbono ne ha ricevuto un
secondo che egli stesso ha usato fino alla
scorsa estate. Che coincidenza: ha smesso di
utilizzarlo dopo l’elezione a sindaco. Il
conto di Divani è appoggiato a Farbanca, un
istituto molto particolare: ha un solo
sportello e operatività specifica per
professionisti della sanità. Perché Divani,
che è un tecnico informatico, aveva soldi
nella banca dei farmacisti? È stato Delbono
a farglielo aprire, visto che poteva
disporre a piacimento dei soldi? E tutto
questo giro non potrebbe essere legato alle
forniture di Divani alla sanità della
Regione Emilia-Romagna, di cui Delbono era
vicepresidente?
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I bilanci della Connex Card
Technologies srl, società con
sede a Zola Predosa (Bologna) in
via Cavour 5, parlano chiaro.
Dicono che gli affari per
l'amico di Delbono sono
decollati grazie agli accordi
con la Regione. Prima di allora,
vacche magre. La società è stata
fondata nel 2002 per
«assemblaggio e
commercializzazione di card a
tecnologia polifunzionale. Nel
2003 registra 5.166 euro di
fatturato e 7.490 di perdita,
l’anno dopo il giro d’affari
sale a 24.060 euro con un
piccolo utile di 493 euro. La
nota integrativa al bilancio
fotografa le difficoltà: «Il
mercato in cui opera la società
vive un periodo di andamento
altalenante - scrive Divani,
amministratore unico -.
Persistendo le difficoltà del
nostro cliente principale,
stiamo valutando nuovi scenari.
Siamo fiduciosi che nei prossimi
mesi l’attività abbia uno
sviluppo interessante». In
effetti, il 1° gennaio 2005
scatta la prima consulenza di
Divani con Cup2000, la spa a
capitale pubblico (Regione,
Comune di Bologna e aziende
sanitarie) che gestisce il
servizio di prenotazione unica
di visite mediche ed esami
clinici. La Regione Emilia
Romagna, di cui Delbono è numero
due, è il primo azionista del
Cup; per un periodo Delbono
siede anche nel consiglio di
amministrazione della società
come vicepresidente. E nel Cup
viene messa a lavorare Cinzia
Cracchi dopo la rottura
sentimentale con Delbono: ieri
il direttore dell’azienda, Mauro
Moruzzi, ha spiegato che la
signora ha potuto salta- re le
normali selezioni del per-
sonale perché «proposta dal
socio di maggioranza». Cioè la
Regione. Cioè Delbono. Moruzzi
ha poi annunciato il
congelamento dei pagamenti alla
società di Divani (pagamenti per
449mila euro nel 2009), in
attesa di vederci chiaro. Alla
prima consulenza ne seguono
altre quattro. E i risultati sui
conti di Connex Card si vedono:
nel 2005 il fatturato sale a
36.416 e l'anno dopo a 49.075.
Dalla relazione al 31 dicembre
2006 si evince che è cambiata
ragione sociale: ora la ditta
non fabbrica più tesserini
elettronici ma «fornisce
consulenze in materia
informatica» e ha effettuato «un
paio di forniture, chiavi in
mano, di data center per conto
di aziende clienti». Ma il salto
avviene nell’esercizio 2007,
quando Divani acquisisce la
fornitura di computer per il
progetto Sole (connessione
on-line di tutti i medici di
base della Regione). Il
fatturato triplica (158.262
euro) e raddoppia ancora l'anno
dopo (357.255 euro); in due
esercizi si incrementa di sette
volte.
Che cos’è capitato? Lo spiega
sempre la nota integrativa al
bilancio: è successo che alle
consulenze si è affiancata «una
seconda attività di vendita
all’ingrosso di strumentazioni
elettroniche, informatiche ed
elettrotecniche» in quanto la
società l’installazione delle
postazioni informatiche dei
medici di medicina generale e
dei pediatri di libera scelta in
ambito regionale». Il bilancio
2008 è firmato da
Simonetta Tosi, moglie di Divani,
che le ha girato le proprie
quote. La signora lavora al Cup,
quindi risulta al tempo stesso
dipendente e fornitrice.
Ecco dunque gli ultimi anni del
Divani imprenditore: una
ditta in affanno, priva di
referenze particolari,
improvvisamente conquista
consulenze e forniture da una
società della Regione. Le
ottiene in via fiduciaria, senza
gare d’appalto nemmeno quando il
giro d’affari con il Cup supera
la soglia (200mila euro) che
obbliga ad assegnare le
forniture tramite gara pubblica.
Invece per Connex Card e altre
quattro ditte - a causa
dell’«urgenza» - basta la
semplice valutazione di cinque
funzionari.
E nel portafogli di Delbono
finisce il bancomat di Divani.
(ha
collaborato Antonio Selvatici)
Solo conflitto di interessi?
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Il modello Emilia:
soldi e favori al fratello del capo |
Il Giornale - 17 ottobre 2009 |
Errani finanzia Errani.
Vasco, presidente pd dell’Emilia Romagna
(oltre che della Conferenza stato-regioni),
sovvenziona il fratello maggiore Giovanni,
presidente della cooperativa Terremerse
aderente a Legacoop. Tutto alla luce del
sole, esistono delibere, perizie, fatture in
una catena di stranezze e irregolarità. Che
si spiegano solamente con il collaudato
sistema di potere locale che sorregge le
società rosse attraverso la triangolazione
istituzioni-coop-partito. Un intreccio tra
politica e affari che risalta nella storia
di questa cooperativa agricola di
Bagnacavallo operante tra Imola e il
Ravennate. A cominciare dai nomi dei
protagonisti: la famiglia Errani (Vasco,
Giovanni e la figlia di quest’ultimo, Linda,
sindaco della vicina Massa Lombarda, paese
natale di tutti e tre); Guido Tampieri,
anch’egli di Massa Lombarda, ex dirigente di
Cgil e Pci-Pds-Ds, ex assessore regionale
all’Agricoltura, ex sottosegretario del
ministro De Castro nell’ultimo governo
Prodi; Massimo Marchignoli, allora sindaco
di Imola, ora deputato pd.
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Siamo nel 2005. Terremerse
naviga nei debiti per una serie
di scelte gestionali criticate
da molti soci e dalla locale
Confederazione italiana
agricoltori. Come risollevarsi?
Semplice: si chiedono soldi alla
Regione e favori alle
istituzioni. Approfittando del
piano regionale di sviluppo
rurale, la coop di Errani
Giovanni progetta un nuovo
stabilimento vinicolo finanziato
dalla Regione di Errani Vasco
per un milione di euro (su una
spesa prevista di due milioni e
mezzo), mentre i Comuni di Imola
e Massa Lombarda trasformano in
zona residenziale ad alto indice
un’area produttiva di Terremerse.
I terreni resi edificabili
vengono successivamente
acquistati da Unipol Merchant
Bank, Coop Adriatica e Federcoop
Ravenna. Ciliegina sulla torta,
dopo qualche mese la cantina
viene ceduta nonostante
l’esplicito divieto della
Regione.
Il 14 novembre 2005 il dirigente
regionale Carlo Basilio Bonizzi
(l’assessore è Tampieri)
finanzia il nuovo impianto
enologico stabilendo che i
lavori dovranno terminare entro
il 30 aprile 2006 e che il
contributo sarà erogato dopo i
controlli. Ma il 30 aprile i
cantieri sono ancora aperti
perché Terremerse non aveva
ancora ottenuto dal Comune di
Imola il permesso di costruire,
avendolo richiesto soltanto il
28 marzo. Il milione di euro
rischia di saltare. Come
salvarlo? Ecco che scatta il
«soccorso rosso»: il 27 aprile
la coop chiede un mese di
proroga, l’11 maggio la Regione
concede il rinvio, il 23 maggio
il Comune sblocca i lavori. La
giustificazione del ritardo è
spassosa: la «prolungata
piovosità del periodo invernale»
che ha «impedito ai mezzi
meccanici di entrare sul lotto».
Peccato che l’inverno 2005-06
sia stato tra i più asciutti
degli ultimi anni.
Il miracolo si compie.
Terremerse ottiene il permesso
di costruire il 23 maggio, e il
31 dichiara formalmente alla
Regione che i lavori sono
ultimati. Incredibile ma vero.
Una settimana per costruire un
grande stabilimento vinicolo.
Non c’è bisogno di dire che la
realtà è tutt’altra. Dal
rendiconto ufficiale presentato
il 15 giugno risulta infatti che
i lavori sono iniziati il 22
febbraio, tre mesi prima che
fossero autorizzati. Da notare
che il Comune aveva imposto una
serie di opere preliminari, tra
cui «i preventivi adempimenti
per le costruzioni in zone
sismiche». Sono stati davvero
eseguiti? Il dubbio è
fortissimo. Anche perché
Terremerse non fornisce neppure
il certificato di agibilità e
conformità edilizia che era
tenuta a presentare assieme al
rendiconto e alla dichiarazione
di fine lavori. Una inadempienza
clamorosa. Ma la Regione chiude
un occhio, anzi tutti e due, e
il 20 giugno Bonizzi attesta che
«tutti i termini previsti sono
stati rispettati». (segue)
Solo conflitto di interessi?
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SORU LICENZIA IN
TISCALI E ASSUME IN REGIONE |
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Per lui i licenziamenti non sono
un grosso problema: da quando è
governatore della Sardegna ha
assunto in regione parecchia
gente che proveniva proprio
dalla sua azienda. Manager come
Sergio Benoni, direttore
editoriale messo a capo della
Sardinia Media Factory, o Chicco
Porcu, pubblicitario con seggio
in consiglio regionale. Ma anche
parecchia gente normale.
In questi anni la politica del
personale decisa da Soru ha
fatto arrabbiare parecchi
dipendenti della regione. In
procura è arrivato un esposto di
impiegati che si sono ritrovati
improvvisamente disoccupati pur
conservando il posto di lavoro.
Entravano al mattino, timbravano
e per sei ore stavano a non far
nulla. In compenso le loro
mansioni venivano girate a un
esercito di precari, per lo più
provenienti da Tiscali. Questo è
accaduto soprattutto nel settore
Trasparenza e comunicazione,
dove Soru ha assunto la bellezza
di 118 persone. Contratti più o
meno lunghi, lavori più o meno
importanti, nonostante la
regione abbia un ufficio stampa
nutrito e ben pagato.
Conflitto di interessi?
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DI PIETRO SALVA TRAVAGLIO |
Intervista al senatore
Tancredi Cimmino raggirato da Di Pietro |
Il Giornale - 22
gennaio 2009 |
«Marco Travaglio la scrisse
sull’Unità quella falsità della
cassa ("scappò
con la cassa dell'Udeur"),
e io lo querelai, certo di
vincere. Avrei vinto 100mila
euro. Ma ritirai la querela.
Furono Silvana Mura e Antonio Di
Pietro a chiedermelo. Prima
rifiutai, ma poi mi convocarono
al ministero, fecero pressioni,
dissero “è un amico, lascia
stare”».
«Sarei stato capolista al Senato
per l’Idv... Certo non mi
dissero “se ritiri la querela ti
candidiamo”. Ma certe cose non
c’è bisogno di dirle: non mi
avrebbero candidato se gli
avessi negato un favore».
«Rimasi capolista fino a pochi
giorni prima del termine di
presentazione delle liste».
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Poi «.. il Giornale pubblicò la notizia che
nel 1998 era stato chiesto il mio arresto e
il rinvio a giudizio per associazione
camorristica».
Fu prosciolto «Ma mi fecero fuori lo
stesso».
«Il 20 marzo scrissi un sms a Di Pietro,
segnalandogli la questione. Rispose così: “È
una stronzata pazzesca”. Poi mi chiese di
vederci a pranzo.
Avrei preferito che mi dicesse chiaro: non
voglio rischiare che mi attacchino. Invece
non disse una parola. Del resto lui fa
sempre così, promette, non mantiene e
scompare. Mi aveva chiesto di radicare il
partito a Roma, disse che gli serviva la mia
esperienza. Ci credevo».
«Altro che partito della legalità, certe
cose non succedono negli altri partiti.
Avrei potuto trascinarli in tribunale».
.....
«Di Pietro è un cinico approfittatore. E si
circonda di capetti locali che il partito
non lo vogliono costruire, perché vogliono
conservare i loro incarichi senza
competitori che rompano le uova nel paniere
Mi porto via mezzo partito, faremo
un’associazione politica.
Poi mia moglie sta parlando con gli
avvocati. Vuol riaprire la causa contro
Travaglio per i danni morali che lei e i
miei figli hanno subito in questi anni.
Questa è la mia rabbia, ma che devo fa’?».
Solo conflitto di
interessi? |
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I FRATELLI VELTRONI |
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1999 -
CRAC DI 60
MILIARDI DI LIRE.
La Procura di Pisa ha chiesto il rinvio a
giudizio per il crac Cosmopolitan di
Valerio Veltroni, fratello del leader
dei Ds, e per Guendalina Ponti, figlia del
produttore risposatosi con l' attrice Sofia
Loren. Il business Ponti - Veltroni, franato
con il fallimento delle società Consorzio
Tirrenia, Tirrenia golf club e Cosmopolitan
film, nasceva dagli studios cinematografici
fondati da Gioacchino Forzano durante il
fascismo. Finiti in dissesto, vennero
rilevati da Ponti, che negli anni Settanta
li chiuse per tentare una speculazione
immobiliare con cubature improponibili.
Negli anni Ottanta la figlia Guendalina,
avvocato di attori famosi, e il suo compagno
Veltroni, un ex funzionario del Pci
trasformatosi in finanziere, ci hanno
riprovato: con il progetto di un centro
turistico con campi da golf, calcio e
tennis, albergo di lusso, zona congressi e
abitazioni. Da alcuni atti dell' inchiesta
si intuisce la facilità con cui ottennero
finanziamenti pubblici a fondo perduto o
prestiti della Cassa di risparmio di Pisa e
di altre banche pubbliche (per tanti
miliardi). Veltroni con la società Itafin fu
però travolto da speculazioni avventate
sulle valute. Insieme a Guendalina non trovò
più il denaro per completare le opere
iniziate a Tirrenia.
Arrivò il dissesto, che provocò la
disoccupazione dei muratori impegnati nei
lavori.
Un' ispezione della Banca d' Italia su
eventuali fidi facili della Cassa di Pisa
esasperò uno scontro interno (tra ex
craxiani e ulivisti). |
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Il rapporto fu inviato al magistrato Nicola
Pisano, che raccolse voluminosi faldoni di
atti. Il tam tam dei cronisti locali faceva
intuire sviluppi clamorosi, quando arrivò da
Roma il nuovo procuratore capo Enzo Iannelli,
che valutò in modo meno "colpevolista" il
caso Cosmopolitan: scontrandosi con il suo
sostituto fino a togliergli l'inchiesta. Le
affermazioni degli inquisiti fanno supporre
che abbia alla fine prevalso la tesi di
Iannelli anche se non sono mai stati
dissolti i dubbi su sospetti flussi di
denaro, collegabili a volte a società "off
shore" e a banche svizzere. (Ivo Caizzi) |
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1996 -
SPARITI 1000
MILIARDI DI LIRE.
Ma Valerio Veltroni era esperto in certe
alchimie della finanza , era già stato
indagato 3 anni prima a Grosseto a proposito
delle coop: sparirono 1000 miliardi di
vecchie lire.
Anche di questa vicenda sono rimasti
soltanto di dubbi perché a distanza di anni
non tutti sanno cosa e' stato capace di
combinare il fratello di Walter Veltroni.
Mastella una sera a Porta a Porta, dopo le
dimissioni dal governo Prodi, stava per "cantare"
ma non l'ha fatto solo perché ha anche lui i
suoi scheletri nell'armadio, Mastella ha
solo accennato un ritornello per chi aveva
orecchie da intendere.
Solo conflitto di
interessi? |
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DI PIETRO E PRODI DOVEVANO SALVARE
L'ITALIA |
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Correva l’anno 1995 quando la contessa
Borletti che viveva a Londra proclamò:
“Soltanto quei due (Di Pietro e Prodi)
possono cambiare l’Italia”. I tempi erano
difficili, la Prima repubblica finiva in
macerie, il nuovo avanzava ma a stento.
Romano Prodi girava in pullman l’Italia e
Antonio Di Pietro, appena dismessa la toga,
ancora meditava se buttarsi in politica. Fu
allora che Maria Virginia Borletti, detta
Malvina, la milanesissima erede delle
macchine per cucire “Borletti, punti
perfetti”, decise che era venuta l’ora di
dare il suo personale contributo al
cambiamento.
Il 22 maggio, davanti all’avvocato londinese
Claudio Del Giudice, in Great Eastern street,
firmò l’atto di donazione più straordinario
nella storia della Repubblica: il 20 per
cento dell’eredità del padre Mario sarebbe
andato a Romano Prodi e ad Antonio Di
Pietro, “le persone che più hanno da dire al
nostro Paese e che riflettono la miglior
parte degli italiani”.
Sette miliardi di lire in due, fu la stima
dell’epoca: 3,5 miliardi a testa che
avrebbero potuto, calcolarono preoccupati
figli e fratelli, diventare ancora di più. E
infatti chiusero i cordoni della borsa
appena possibile. Ma di soldi ne erano già
usciti tanti: 1,5 miliardi che i beneficiari
giurarono di avere accortamente investito in
attività politica. Fino al colpo di scena
del 9 gennaio scorso, quando su Libero
Antonio Di Pietro ha illustrato la
destinazione di 300 dei 954 milioni da lui
incassati dalla contessa:
acquisto di case.
Possibile?
Da Londra arriva un “no comment”. Non parla
la contessa che voleva “cambiare l’Italia”,
né i fratelli che le contestarono la
donazione, e neppure i figli Federico e
Francesca, quelli che protestarono: “Sprechi
i soldi”. Alessandro Manusardi, il
commercialista milanese che all’epoca
seguiva gli affari italiani di Malvina, si
sente però di “escludere in maniera assoluta
che l’obiettivo della signora fosse il
finanziamento di qualsivoglia acquisto
immobiliare altrui”.
E qui cominciano le pene di Manusardi, alle
prese con il 740 della contessa. In base
alla legge può detrarre solo le donazioni ai
partiti, non quelle
ad personam;
dunque si mette disperatamente in caccia di
una ricevuta che attesti il passaggio delle
somme dai due politici ai partiti di
riferimento. Da Prodi ne ottiene una: le 198
mila sterline sono state girate al Comitato
Italia che vogliamo, che ne rilascia
regolare quietanza. Ma Di Pietro? “Ho
parlato più volte col suo tesoriere, Renato
Cambursano” racconta il commercialista. “Non
sono mai riuscito a ottenere nemmeno un
pezzo di carta”. |
Guarda caso, in quel periodo c’era
l'inchiesta “VALSELLA“che vide un conte
Borletti andare in galera poiché socio al
50% di una società Bresciana che fabbricava
mine antiuomo e che finivano in Iraq dopo
una triangolazione con Singapore. |
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I miliardi della contessa non hanno salvato
l'Italia: quelli a Prodi sono finiti in una
campagna elettorale, quelli a Di Pietro
hanno solo aggiunto delle case alle sue
proprietà. Solo conflitto di
interessi? |
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ANTONIO DI PIETRO E I 40
MILIONI |
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Incredibile: tutte le persone, formazioni
politiche, partiti più o meno grandi, dopo
essersi alleati con lui per il voto
amministrativo, politico o europeo, alla
fine lo trascinano in tribunale accusandolo
di non aver diviso equamente i soldi. Al
momento è in corso un procedimento contro Di
Pietro presentato dall’ex amico Elio Veltri
per ottenere legittimamente parte dei
rimborsi incassati, come risarcimento delle
elezioni europee del 2004, dalla formazione
denominata «Lista Di Pietro-Occhetto».
Come è noto i rimborsi elettorali sono a
favore dei partiti che hanno partecipato
alle elezioni e devono essere gestiti ed
amministrati dai partiti stessi.
E qui sorge il problema, perché Antonio Di
Pietro, oltre al partito chiamato Movimento
politico, ha costituito un’Associazione
composta da lui stesso, dalla moglie Susanna
Mazzoleni e dall’onorevole Silvana Mura.
Curiosamente questa Associazione ha lo
stesso nome del partito-movimento: c’è
dunque l’«Associazione
Italia dei valori» e c’è il «Movimento
Italia dei valori».
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I due soggetti sulla carta hanno organi
sociali e rappresentanti legali diversi: la
Mura rappresenta legalmente l’Associazione,
il presidente Tonino rappresenta legalmente
il Movimento. A richiedere, incassare e
gestire i rimborsi del «Movimento politico»
sarebbe in via di fatto l’«Associazione» di
famiglia, attraverso la
deputata-rappresentante legale Silvana Mura.
La Camera non effettua il benché minimo
controllo e paga senza batter ciglio.
Quello che emerge dalle carte processuali è
invece che la Mura è «solo» la
rappresentante legale e il tesoriere
dell’associazione di famiglia di Antonio Di
Pietro. Non esiste alcun verbale di
assemblea del Partito-Movimento che nomini
quale proprio rappresentante legale Silvana
Mura. Né esiste alcuna delibera
dell’esecutivo nazionale del
Partito-Movimento che Di Pietro definisce
«il massimo organo assembleare» dello
stesso.
In pratica tutto il movimento di denaro
attribuito all?italia dei Valori non passa
sotto il controllo degli organi del partito
ma viene amministrato dalla famiglia Di
Pietro. Altro capitolo dolente, collegato ai
rimborsi elettorali, quello dei rendiconti e
dei bilanci dell’Idv. Per Tonino è tutto
pulito e regolare: «Ho pubblicato su
internet il rendiconto del partito che è
stato ratificato dal mio esecutivo
nazionale» si legge nelle memorie consegnate
ai giudici dal suo avvocato, Sergio
Scicchitano. In realtà se si va un po’ più a
fondo si scopre che ad approvare il
rendiconto relativo alle elezioni del 2004 è
stato il solo Antonio Di Pietro, il
31.3.2005, quale presidente
dell’Associazione, e non del Partito. Non
esiste alcun verbale di approvazione da
parte dell’assemblea del Partito, né per il
2004 né per gli altri anni, precedenti e
successivi.
Per tornare all’Idv, dalla contabilità del
2004, si scopre che Di Pietro si è
autoaccreditato la modica cifra di 432mila
euro col generico titolo di «rimborsi
spese», decine di migliaia di euro risulta
essersi autoaccreditata Silvana Mura, e
questo senza contare il milione e passa di
euro che i partiti (e non le associazioni di
famiglia che si sostituiscono) possono
indicare in modo forfettario pari al 30 per
cento delle spese supportate da documenti.
Tutto senza nessun controllo sostanziale. E
così, anche dalla lettura dei rendiconti
«Italia dei valori» dal 2001 in avanti
qualche legittimo interrogativo è
impossibile non sollevarlo. Spiegazioni, ad
esempio, sulle centinaia di migliaia di euro
destinate a vari «comitati regionali»?
Nessuna. Così come per altre spese, inclusi
i 600mila euro formalmente iscritti come
fondi per le pari opportunità, e che proprio
la responsabile delle donne dell’Idv afferma
non avere mai visto.
In ballo ci sono non meno di
40 milioni di euro di
fondi elettorali. Il problema
vero è capire perché, giocando tra Movimento
e Associazione, tra equivoci e omonimie, tra
encomiabili dichiarazioni d’intenti e
comportamenti contrari, il paladino della
trasparenza rende tutto così opaco.
Solo conflitto di
interessi? |
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ANTONIO DI PIETRO
IMMOBILIARISTA |
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Ma quante case ha l’onorevole Antonio Di
Pietro? |
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E con quali soldi le ha comprate? |
Con i rimborsi elettorali? |
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Un suo ex socio lo ha denunciato a proposito
della società immobiliare Antocri (acronimo
di Anna, Toto, Cristiano, i figli di Di
Pietro) e delle presunte commistioni con i
patrimoni dell’Italia dei Valori. Secondo
l’ipotesi iniziale, Di Pietro avrebbe
utilizzato i soldi del partito per
acquistare appartamenti arrivandone ad
affittare alcuni all’Idv, di cui era
presidente. Un modo di fare penalmente
irrilevante, secondo l’accusa ed infatti è
stato prosciolto.
Conflitto di interessi? |
Il 16 marzo 2006, in quel di Bergamo, il
padre-padrone dell’Idv si aggiudica alle
buste, in condizioni burrascose e
rocambolesche, un signor appartamento (vedi
articolo sotto) a un prezzo scontatissimo
dovuto alle cartolarizzazioni del patrimonio
immobiliare dell’Inail. Roba da Svendopoli
per vip. Lui non appare mai, fa tutto
l’amministratore della sua società
immobiliare Antocri (che però non agisce in
questa veste), nonché compagno di Silvana
Mura, deputata Idv, tesoriera del partito e
socia dell’Associazione IdV. Visti i
precedenti, le confusioni di ruoli, le
ambiguità fra «movimento» e «associazione»,
le locazioni degli immobili di proprietà di
Di Pietro al partito dello stesso Di Pietro
(gli appartamenti di cui parleremo dopo in
via Casati a Milano e in via Principe
Eugenio a Roma) non è stata una sorpresa
scoprire che anche su quest’ultimo immobile
qualcosa non quadra: l’ha comprato Di
Pietro, attraverso il convivente della Mura,
la quale ha intestate le utenze di casa che
corrispondono perfettamente a quelle un
tempo in uso all’ex sede della tesoreria
nazionale di via Taramelli 28.
Conflitto di
interessi? |
La società An.to.cri è nata con un capitale
sociale assai modesto (appena 50mila euro),
posto ancora che nel 2005 Di Pietro ha
dichiarato un imponibile di 175mila euro e
nel 2006 di 189mila, l’interrogativo sulla
provenienza dei capitali per l’acquisto
degli appartamenti, è dovuto per una
personalità pubblica del suo calibro. Specie
se ci si sofferma a sbirciare nel patrimonio
immobiliare di quest’uomo che anche quando
indossava la toga, non sembrava contenersi
nello shopping edilizio: una villa con
giardino a Curno, e di lì a poco, nel 1994,
una nuova villetta, attaccata alla
precedente, di otto vani. L’anno appresso Di
Pietro compra un’abitazione da 300 metri
quadri a Busto Arsizio, che gira prontamente
al partito dopo aver acceso un mutuo
agevolato per l’80 per cento del totale.
Tempo qualche annetto e, una volta eletto al
Parlamento europeo, fa il bis con un
bilocale nel centro di Bruxelles: quanto
l’abbia pagato non è noto. Arriviamo così al
2002 allorché l’ex ministro delle
Infrastrutture si accasa in un elegante
quarto piano in via Merulana, a Roma: altri
otto vani, per un totale di 180 metri
quadrati, pagato intorno ai 650mila euro
grazie anche a un mutuo di 400mila euro
acceso con la Bnl. L’anno dopo, nella natia
Montenero di Bisaccia, Di Pietro cede al
figlio Cristiano un attico di 173 metri
quadrati: «Sei vani e mezzo poi ampliati a
otto e a 186 metri quadrati (più 16 di
garage) - analizza la Voce - grazie al
condono edilizio del 2003. La spesa
sostenuta è all’incirca di 300mila euro».
Conflitto di
interessi? |
Gli alloggi per i figli
Non passano due mesi e alla fine di marzo,
l’ex pm compra a Bergamo un bel quarto
piano, per i figli Anna e Toto: 190 metri
quadri in un signorile palazzetto liberty in
via dei Partigiani. Lo stesso giorno, con lo
stesso notaio, la moglie di Tonino fa suo un
appartamento di 48 metri quadrati, sempre al
quarto piano, oltre a due cantine e a un
garage: si parla di una cifra oscillante
intorno agli 800mila euro, ma non c’è
conferma nemmeno su chi abbia provveduto
all’esborso e in quale misura. Il 2004 è
alle porte, e il nuovo appartamento di 190
metri quadri acquistato per 620mila euro in
via Felice Casati a Milano - come da rogito
stipulato in aprile - Di Pietro lo intesta
alla Srl Antocri. Poi per un milione e
50mila euro la medesima società immobiliare
fa suoi dieci vani (190 metri quadri) in via
Principe Eugenio a Roma, dove - stando al
bilancio 2005 dell’Idv - trasloca la sede
nazionale di rappresentanza politica del
partito, fino al giorno prima ubicata in via
dei Prefetti 17». Per i due locali Tonino si
rivolge alla Bnl e si carica due mutui sulle
spalle: 276mila euro da saldare entro il
2015 per la casa milanese, 385mila per
quella romana (scadenza 2019). Le pesanti
rate Di Pietro inizialmente le ricaverà
(salvo poi ripensarci quando scoppia lo
scandalo) dal pagamento dei canoni d’affitto
versati all’Antocri da un inquilino
eccellente: la sua Italia dei Valori.
Solo conflitto di
interessi? |
Mattone a Bergamo
Non è finita. Alla vigilia di Natale del
2005, Susanna Mazzoleni, moglie di Di Pietro
e madre dei tre figli, compra un piccolo
appartamento in via del Pradello a Bergamo.
Poche ore dopo acquista anche un ufficio di
quattro vani nella stessa palazzina. Spesa
approssimativa? Tra i 400 e 500mila euro.
L’anno successivo, come detto, Tonino compra
all’asta con offerte segrete la casa di via
Locatelli, sempre nella città orobica.
Mentre l’anno dopo ancora, per una
spesa-lavori consistente (decine, se non
centinaia, di migliaia di euro) inizia a
ristrutturare la masseria di famiglia in
quella Montenero di Bisaccia dove l’ex
ministro delle Infrastrutture, a dar retta
al «catasto dei terreni» possiede 33
«frazionamenti» pari a 16 ettari di
proprietà, in parte ereditati, in altra
parte acquistati da parenti e familiari.
Secondo la Voce (ma ancora non c’è traccia
nelle visure camerali) Di Pietro avrebbe
acquistato anche un altro appartamento per
la figlia, 60 metri in piazza Dergano a
Milano.
Solo
conflitto di interessi? |
La società bulgara
Di Pietro in aula ha spiegato d’essersi dato
al mattone dopo aver venduto l’ufficio di
Busto Arsizio (a 400mila euro, 100mila li ha
dovuti restituire alla banca per il mutuo) e
con il ricavato ha acquistato gli
appartamenti affittati all’IdV: quello di
via Felice Casati a Milano - acquistato
dalla Iniziative Immobiliari di Gavirano,
Gruppo Pirelli Re - e l’altro, in via
Principe Eugenio a Roma (alienato nel 2007).
Ha detto che se tornasse indietro non
rifarebbe quello che ha fatto, anche se la
sua passione per gli affari immobiliari ha
travalicato i confini nazionali: Tonino
possiede infatti il 50% della Suko, una srl
bulgara con sede a Varna. A fronte di
quattro milioni di euro spesi per comperare
immobili fra il 2002 e il 2008, l’ex pm ha
incassato dalle vendite all’incirca un
milione di euro, scremati dalle rimanenze
calcolate per i mutui. Niente di penalmente
rilevante, come dicono gli ex colleghi di
Tonino. Ma i conti non tornano. (dal mensile
«la Voce delle voci»).
Solo conflitto di
interessi? |
|
IL FIGLIO DI DI PIETRO |
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Favori, ricatti, raccomandazioni. Legami
trasversali con i politici, contatti amicali
con i vertici delle forze dell'ordine, in
una girandola di conversazioni che lo pone
al centro di una «rete» di enorme potere. |
Cristiano Di Pietro |
L'inchiesta di Napoli sugli appalti esalta
la figura di Mario Mautone, ex provveditore
alle Opere Pubbliche della Campania, finito
agli arresti domiciliari durante il blitz
della scorsa settimana. E svela i suoi
rapporti controversi con la famiglia di
Antonio Di Pietro, quando quest'ultimo era
ministro delle Infrastrutture. |
Numerose intercettazioni allegate agli atti
dimostrano come il figlio Cristiano,
consigliere provinciale a Campobasso per
l'Italia dei Valori, tentasse di «sistemare»
gli amici e danno conto delle preoccupazioni
del padre per tenerlo fuori dall'indagine. |
L'informativa allegata agli atti
ricostruisce i rapporti tra Cristiano Di
Pietro e Mario Mautone. «Di Pietro — è
scritto nel documento — chiede alcuni
interventi di cortesia quali: affidare
incarichi a persone da lui segnalate anche
al di fuori degli ambiti di competenza
istituzionale; affidare incarichi ad
architetti da lui indicati e sollecitati
anche da Nello Di Nardo; interessi di
Cristiano in alcuni appalti e su alcuni
fornitori. |
Naturalmente le sue richieste vengono subito
esaudite. "Gli ho dato l'incarico! Poi non
l'ho ancora dato a lei! Lo passerò sempre a
te e poi ce lo farai avere tu!", gli dice
Mautone». Conversazione dell'8 giugno 2007. |
Cristiano: «Poi un'altra cosa, non so se la
puoi fare questa cosa o meno... se hai la
possibilità... ». Mautone: «Dimmi, dimmi». |
Cristiano: «Io ho un amico però è ingegnere
e sta a Bologna, volevo sapere se su Bologna
c'era possibilità di trovargli qualcosa...».
Mautone: «Adesso vediamo, ci informiamo
subito e vediamo». Il rapporto tra i due si
interrompe il 29 luglio 2007. «Mautone gli
comunica di essere stato trasferito. Cade la
comunicazione e Di Pietro non risponderà più
alle telefonate». Il giorno dopo Aniello
Formisano incontra Mautone, non sanno che le
loro parole sono registrate da una
microspia. E Formisano rivela: «Quello ha
avuto qualche input e si è messo a posto...
mi ha detto, figurati nemmeno al telefono
suo lo dice — il telefono di Nello — Perché
secondo me lo tiene sotto pure».
Conflitto di
interessi? |
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WALTER VELTRONI & FRANCESCO RUTELLI |
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C’è una cosa che in queste giornate
turbolente Walter Veltroni fatica a
ricordare: di essere stato sindaco di Roma.
E di aver portato la fascia tricolore negli
anni in cui Alfredo Romeo concluse gli
affari più lucrosi con la capitale.
Forse se n’è dimenticato lui stesso. Forse
non c’era. Se c’era, dormiva.
Perché è difficile pensare che il numero uno
del Pd, il «dittatore democratico» che dava
lezioni di «bella politica», il leader che
voleva saltare dal Campidoglio a Palazzo
Chigi si sia fatto passare sopra la testa
tutti quegli intrighi.
I primi affarucci risalgono ai tempi del
sindaco piacione, Francesco Rutelli che a
fine Anni ’90 affidò all’imprenditore
napoletano la gestione del patrimonio
immobiliare del Comune. |
|
L’appalto
consentì a Romeo di condurre la vendita di
1.300 case nel centro storico di Roma a
prezzi di realizzo: tre camere a piazza
Navona a 60 milioni di lire, 30mila euro di
oggi, roba che non ci paghi nemmeno un anno
di affitto. La radicale Rita Bernardini,
allora consigliere comunale oggi deputato
Pd, fece il diavolo a quattro, ma il sindaco
tacque. Poi fu eletto Veltroni. Risultato:
gli elenchi delle case in vendita finirono
in internet, e morta lì.
Conflitto di
interessi? |
Ma il vero affare fu il cosiddetto Appaltone:
la manutenzione di 800 chilometri di strade
cittadine.
Questa è la vicenda più interessante perché
interamente gestita dalle giunte veltroniane
e citata a raffica nelle intercettazioni di
Napoli tra Romeo e il parlamentare
democratico Renzo Lusetti. Un appalto
mastodontico, 720 milioni di euro per nove
anni. Quattro conti e anche la casalinga di
Tor Pignattara si rende conto che il comune
di Roma sborsa la bellezza di 100mila euro
all’anno per ogni chilometro di strada. A
Firenze il sindaco Domenici ne prevede 9.250
(più di dieci volte in meno), Cofferati a
Bologna 5.500. Forse che l’asfalto
capitolino è più delicato che in piazza
Maggiore? A Roma cade così tanta neve da
sradicare più sampietrini che lastroni di
piazza della Signoria? O sul raccordo
anulare si aprono più buche che sulle altre
tangenziali? Misteri bituminosi.
Che quell’appalto sia stato un disastro, i
romani se ne sono accorti il mese scorso con
le piogge che hanno allagato e squarciato le
strade.
Solo conflitto di
interessi? |
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RENATO
SORU |
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Prima impallinato dai suoi in Consiglio
durante il voto sulla legge urbanistica, poi
la bega del conflitto di interessi acuita
dopo l’acquisto dell’Unità, quindi le
inchieste della magistratura che fanno le
pulci ai suoi appalti, poi le spericolate
operazioni immobiliari in riva al mare.
Proprio lui, il paladino delle coste, l’eroe
dell’anti scempio.
Quello che fa tremare maggiormente il
governatore, tuttavia, è il cosiddetto caso
Saatchi & Saatchi. La Regione dovrà pure
farsi pubblicità, no? Ecco pronto un mega
appalto da 56 milioni di euro per il quale
il pm cagliaritano Mario Marchetti ravvisa i
reati di abuso d’ufficio e falso ideologico.
Cinquantasei milioni di euro, mica
bruscolini: e adesso Renato Soru sente puzza
di rinvio a giudizio. |
|
Tutto nasce nel 2006 quando si decide di
affidare la pubblicità istituzionale della
Regione a una ditta esterna. Nelle sedute
della commissione che deve verificare i
progetti in gara succede di tutto: verbali
accantonati, votazioni al limite del
ridicolo. Insomma, quel lavoro doveva andare
per forza alla Saatchi & Saatchi. Nel mirino
della magistratura finiscono il governatore
in persona, il dirigente regionale Fulvio
Dettori, il rappresentante del colosso della
comunicazione Fabrizio Caprara, i componenti
della commissione che aggiudica la gara e i
responsabili del consorzio Sardegna Media
Faactoring, a cui sarebbe andato in
subappalto un terzo dei lavori e che, guarda
caso, annovera tra i suoi componenti imprese
sarde al cui vertice figurano nomi che hanno
collaborato o hanno avuto un ruolo
dirigenziale in Tiscali, come i fratelli
Benoni. Un pasticcio, insomma. Per il pm il
regista di tutto è Soru perché, si legge
negli atti di chiusura dell’inchiesta:
«Agiva d’intesa con Caprara e con i fratelli
Benoni, determinato Dettori a influire sui
componenti della commissione perché il
servizio di pubblicità fosse aggiudicato
alla Saatchi & Saatchi». «Sono un uomo
onesto», s’è sempre difeso Soru che, con le
spalle al muro, ha bloccato tutto e
annullato il mega appalto milionario.
Conflitto di
interessi? |
Una mattonata in testa per il governatore
che, a proposito di mattoni, ha un’altra
grana sul cantiere di Funtanazza. Il patron
della Tiscali, che di soldi ne ha bizzeffe,
nel 2003 si mette in testa di comprare, per
circa 7 milioni di euro, un bel po’ di
terreno a un passo dal mare, nel comune di
Arbus. «Lì sorge una vecchia colonia per i
figli dei minatori - pensa il neopatron
dell’Unità -, perché non farci invece un
bell’albergo con tanto di piscina, centro
benessere e impianto sportivo?». Ma come? Il
tutore delle coste sarde, il peggior nemico
dei palazzinari adesso si arma di cazzuola e
cemento? Sì, ma appena appena e oltre i 300
metri dal mare, lì dove si può, ed è quindi
tutto regolare. Ma scoppia il putiferio
politico con l’opposizione che attacca
lancia in resta: in quell’area, prima della
giunta Soru, si poteva fare solo
manutenzione ordinaria e straordinaria e il
governatore s’è fatto una legge su misura
per demolire tutto e costruire il mega
hotel. Un conflitto di interessi grande come
una casa anzi, grande come un albergo. Lui
ha cercato di difendersi: «Ma quale
conflitto di interessi... Ho acquistato
Funtanazza nel 2003, prima di entrare in
politica, prevedendo per l’aerea un progetto
di recupero». Peccato che mister Tiscali sia
sceso in campo nell’agosto del 2003 («ormai
mi sono impegnato in politica») e l’acquisto
dell’area è dell’11 dicembre 2003. Poi ci si
mette la commissione edilizia che blocca il
progetto perché mancano dati e relazioni
tecniche e paesaggistiche e, insomma,
sfiancato, Soru è costretto a mollare anche
quel colpo: «Ok, per evitare
strumentalizzazioni ritiro il progetto e
metto tutto in vendita». Peccato che ora non
possa vendere alcunché, visto che il bene
dev’essere ceduto al comune di Arbus perché
sono scaduti tutti i termini.
Conflitto di
interessi? |
Blind trust
Soru, sollecitato dal partito, affida tutte
le sue partecipazioni azionarie a Gabriele
Racugno, un docente di Cagliari.
Quando Alberto Statera su Repubblica ha
chiesto di rispondere a chi «ironizza
dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu
Confalonieri" a Mediaset e suo fratello
all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al
Giornale », Soru ha liquidato
sprezzantemente come «sciocchezze» quelle
domande sacrosante eppure trattate come
spregevoli insinuazioni.
Conflitto di
interessi? |
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ITALIA DEI VALORI IN
CAMPANIA |
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Francesco Barbato, deputato IDV, in
un’intervista a Panorama ha sbottato: «O
facciamo pulizia o me ne vado». L’onorevole
Barbato, che viene da Camposano di Nola, ha
aggiunto: «Mi sospendo dagli incarichi dell’Idv
in Campania perché qui nel partito spuntano
camorristi, strane facce, gente alla quale
io nemmeno stringerei la mano. Questo è il
primo passo».
Il riferimento, neanche tanto velato, è alla
vicenda di Americo Porfidia, un altro
deputato campano dipietrista, attorno al
quale si sta consumando una vicenda
pericolosissima per l’immagine dell’Italia
dei Valori. Porfidia, che è anche sindaco di
Recale, comune della provincia di Caserta,
si è autosospeso dal partito dopo le
notizie, circolate con insistenza, di un suo
coinvolgimento in un’inchiesta sulla
criminalità organizzata condotta dalla Dda
di Napoli. «Le pare che quando riapre la
Camera mi debba sedere a fianco del collega
di partito Americo Porfidia, indagato per
camorra dal brillante e coraggioso pubblico
ministero che conduce le inchieste sui
Casalesi?», ha rincarato Francesco Barbato.
Le accuse La vicenda ha contorni
preoccupanti, Porfidia appare come una delle
persone che avevano rapporti istituzionali
con l’ex provveditore alle opere pubbliche
di Campania e Molise, Mario Mautone, al
quale si sarebbe rivolto, come sindaco, per
chiedere chiarimenti su investimenti
pubblici. L’informativa degli investigatori
precisa che a carico del deputato
dipietrista la squadra mobile di Caserta ha
aperto un procedimento penale per l’ipotesi
di reato di associazione a delinquere di
stampo mafioso. Accusa gravissima.
Conflitto di
interessi? |
Qualche settimana fa le cronache puntarono i
riflettori su Cosimo Silvestro, ex
capogruppo alla Regione Campania, perché
sull’auto blu in suo uso viaggiava
regolarmente, con tanto di paletta per farsi
largo nel traffico, un imprenditore Ciro
Campana, noto alle cronache locali e ai
carabinieri perché arrestato nel ’94
nell’ambito dell’operazione “Picasso”,
assolto da tutte le accuse nel 2006, ma
fermato in compagnia di pregiudicati vicini
ai clan camorristici. In questo caso, è
stato lo stesso Di Pietro a chiedere le
dimissioni di Silvestro.
Conflitto di
interessi?
In regione toccherà a Marrazzo, l’unico vero
eletto con l’IDV, fare il capogruppo
regionale. La famiglia di Marrazzo, non lui,
è impegnata nel settore dello smaltimento
dei rifiuti. Il fratello Angelo ha diverse
imprese che praticano questo tipo di
business ma ad alcune è stata rifiutata la
certificazione antimafia.
Conflitto di
interessi? |
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SORU &
DE BENEDETTI |
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Il 25 novembre 2008 scorso il governatore
della Sardegna Renato Soru ha dato le
dimissioni. |
Venti giorni dopo Soru firmava una
convenzione con la Sorgenia, società del
gruppo Cir dell’Ingegnere, attiva nella
produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili, per la costruzione di un mega
impianto, nei pressi di Cagliari. Un bel
favore all’amico De Benedetti che è lo
stesso De Benedetti socio di Tiscali, di cui
il governatore dimissionario è il
padre-padrone. Tutto chiaro come il sole.
Anzi, di più: come un pannello solare. E per
questo cadeau, Soru ha già pure detto di sì
allo spostamento di un torrente, manco fosse
Mosè.
Altre ditte, circa una quarantina, tra le
quali la Trevi Energy spa, erano interessate
all'opera. |
Tuttavia si preferisce l’amica Sorgenia, che
peraltro già produce moduli fotovoltaici a
Villacidro, proprio vicino a Sanluri, e a
Marrubiu, in provincia di Oristano. Alla
società dell’Ingegnere servirebbero almeno
200 ettari per piazzare i propri pannelli
solari nella zona di Macchiareddu Tantini.
Il Consorzio ne possiede un po’ di ettari,
ma non così tanti. I restanti 160 andrebbero
espropriati ai privati. Niente di male, solo
che il meccanismo messo in piedi nella
convenzione è il seguente: il Consorzio
espropria su delega della Provincia e poi
cede tutto a Sorgenia per permetterle di
costruire l’impianto. E chi paga? Be’,
Sorgenia. Ma attenzione: nel patto c’è
scritto che la società è pronta a sborsare
la somma necessaria a partire dai valori
agricoli medi che sono generalmente molto
bassi. Pagherà pure gli eventuali incrementi
di prezzo dei terreni, questo sì; ma
soltanto ove riconosciuti con sentenza in
corte d’Appello, qualora sorgano grane con i
proprietari. Sorgenia parteciperà agli
eventuali contenziosi e, comunque, non
sborserà - per le spese generali, compresi
gli onorari in genere alti in questi tipi di
cause - più di 100mila euro. Noccioline,
insomma.
Un gran bell’accordo, non c’è che dire. E
poi c’è un altro inghippo che però viene
aggirato alla grande: nell’area dove
dovrebbe sorgere la centrale solare di De
Benedetti c’è un fiumiciattolo coi suoi
affluenti. Che si fa, quindi? Si blocca
tutto? Non se ne fa nulla? No, niente
problema: si sposti pure il torrente.
Nell’accordo c’è scritto: «Premesso che
l’area dell’agglomerato industriale...
risulta attualmente attraversata da un
canale artificiale di drenaggio denominato
Rio Cocodi e da alcuni canali minori ad esso
affluenti, interferenti con l’impianto
solare termodinamico... si modificherà il
tracciato del Rio Cocodi».
Conflitto di
interessi? |
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PECORARO - IL MINISTRO
TURISTA |
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Alfonso Pecoraro Scanio nell'ultimo governo
Prodi è stato ministro dell'Ambiente. Sotto
accusa per lo scandalo monnezza in Campania,
ha sempre detto di non sentirsi primo
responsabile. Però, quando si è candidato
con la Sinistra arcobaleno alle ultime
Politiche, è stato dirottato in Puglia
perché i vertici del partito temevano
reazioni negative tra gli elettori di Napoli
e dintorni.
|
Come leader dei Verdi, è stato accusato di
aver eliminato tutti i dissidenti. Per lui
hanno fatto le valigie i vari Ronchi,
Manconi, Scalìa e Manconi. In compenso,
Pecoraro ha promosso a senatore suo fratello
(ed ex calciatore professionista) Marco
Pecoraro Scanio. |
Una inchiesta della procura della Repubblica
di Potenza lo ha coinvolto quale ministro
dell'Ambiente, indagandolo per associazione
a delinquere e corruzione per alcuni
rapporti ipotizzati dai magistrati con
imprenditori legati allo smaltimento dei
rifiuti e al titolare di un'agenzia di
viaggi specializzata in vacanze di lusso,
affitto di yacht e velivoli oltre che nel
provvedere anche a organizzazione di servizi
di scorta. Gli atti di chiusura
dell'indagine sono stati trasmessi per
competenza al Tribunale dei Ministri. |
Secondo il settimanale l'Espresso, nel 2007
Alfonso avrebbe viaggiato sette volte in
otto mesi. E non ha mai sborsato un
centesimo. Pecoraro è stato a Miami, Parigi,
Normandia, Saturnia, Perugia e Milano.
Sempre in alberghi extra-lusso e con
spostamenti anche via elicottero. Per
Pecoraro ha sempre pagato un amico
imprenditore, il quale avrebbe acquistato
anche 18 ettari di terreno in provincia di
Viterbo (area destinata esclusivamente
all'agricoltura) per realizzare un relais
con annessa villa destinata all'ex ministro.
Solo conflitto di
interessi? |
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GLI AFFARUCCI DI PRODI
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Aiuti a parenti e amici: il nipote Luce, il
consuocero Pier Maria, l'imprenditore
coinvolto in Mani pulite: nel giugno 2007
Romano si dà da fare per dare una mano a
tutti.
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Pensa ad affari, aiuti pubblici,
finanziamenti. Telefona o fa telefonare. Le
sue chiacchierate (e quelle degli stretti
collaboratori) vengono ascoltate dai
magistrati di Bolzano. Ora sono sul tavolo
della Procura di Roma, che dovrà stabilirne
l'eventuale rilevanza penale. Le
intercettazioni risalgono al giugno 2007.
Sono pubblicate su Panorama in edicola oggi
29 agosto 2008. Nessuno risulterebbe
iscritto nel registro degli indagati.
All'epoca dei fatti, il Professore è a
Palazzo Chigi. Il Pd è in fase embrionale e
la maggioranza di centrosinistra
scricchiola. I magistrati ascoltano le
conversazioni di Prodi e dei suoi
collaboratori: a Bolzano sono a una svolta
nell'inchiesta per corruzione e riciclaggio
sulla vendita dell'Italtel dell'Iri alla
Siemens, avvenuta negli anni Novanta con
Prodi alla presidenza del colosso di Stato.
Panorama spiega che tra i fondi neri del
gruppo tedesco spunta un bonifico da 5
milioni di euro a favore della Goldman
Sachs, advisor nell'operazione e società
dove hanno lavorato Prodi e molti suoi
fedelissimi. All'epoca stretto collaboratore
di Prodi era Alessandro Ovi. I magistrati
mettono sotto controllo i suoi telefoni. E
vengono a galla una serie di colloqui per
risolvere problemi a parenti o amici.
Per esempio, ci sarebbero le chiacchierate
per finanziare le attività scientifiche di
un apprezzato primario all'istituto
ortopedico Rizzoli di Bologna. Si tratta di
Pier Maria Fornasari. È consuocero di Prodi
ed è in prima linea con la banca dell'osso
della Regione Emilia Romagna. Il primario
invoca finanziamenti pubblici. Prodi si
sarebbe fatto in quattro, coinvolgendo anche
i ministri Livia Turco (titolare della
Sanità) e Fabio Mussi (università e ricerca
scientifica). Secondo Panorama, il
Professore avrebbe chiesto una mano pure a
Ovi, all'economista Daniele De Giovanni,
alla sua segretaria Daniela Flamini, al
capoufficio stampa Sandra Zampa. Secondo le
registrazioni, Ovi si sente con la Flamini.
Dicono che il premier ha organizzato una
riunione «con Mussi e la Turco. Dopo di loro
ha passato tutto a De Giovanni». Le
chiacchierate sui finanziamenti sarebbero
decine. C'è preoccupazione: se Fornasari ne
risultasse beneficiario, scoppierebbe il
finimondo. Si deve trovare una via di fuga.
Ovi telefona al primario: Prodi «dice
che bisogna accelerare la costituzione del
soggetto». E poi: «(...)
perché arrivino i
finanziamenti bisogna farli arrivare nel
posto giusto». Non c'è solo il
consuocero. Prodi si sarebbe preoccupato
anche del nipote Luca, imprenditore e figlio
del fratello del premier.
Panorama scrive che per aiutare il parente,
Prodi avrebbe chiesto una mano a Claudio
Gavazza, presidente del colosso farmaceutico
Sigma Tau. Nei primi anni Novanta, Gavazza
finì più volte in carcere: collaborò dopo la
scoperta di oltre due miliardi di tangenti
pagate a politici e a Duilio Poggiolini.
Torniamo a Luca: ha il 20 per cento e
vorrebbe far saltare il patto di sindacato
nella Cyanagen, azienda bolognese titolare
di diversi brevetti. Luca sognerebbe di
sbarazzarsi di un socio, la Euroclone gruppo
Celbio, che detiene il 24 per cento.
Il nipotino chiede aiuto a zio Romano. Lui
s'impegna. Entrano in campo Gavazza e il
solito Ovi. Quest'ultimo parla al premier:
«Ho parlato con il suo commercialista (di
Luca, ndr) che ha convenuto con me: i patti
sono stati fatti in un momento che si era
con l'acqua alla gola perché gli hai dato
tutto (...)». Il suggerimento dello zio è:
non chiedere l'acquisto diretto della quota
di Euroclone. «Potremo
fare anche un'altra società» dice
Prodi a Ovi «ci sto
anch'io a prestargli i soldi».
Tempo dopo, il Professore suggerisce di
svuotare la società in comune, senza
avvertire il socio.
Tra Prodi e Gavazza c'è un rapporto così
solido che il premier lo coinvolge nella
nascita del Pd. Per Panorama, da una parte
Ovi chiede all'industriale di sponsorizzare
un sondaggio nazionale a Mannheimer per le
primarie del 14 ottobre. Dall'altra, Gavazza
chiede agevolazioni fiscali per la
fondazione scientifica del suo gruppo
farmaceutico. Nel tardo pomeriggio di ieri,
Prodi rompe il silenzio: «Sono fatti di
nessuna rilevanza dal punto di vista sia
giuridico sia penale».
Solo conflitto di
interessi? |
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UNA RICONOSCENZA DA 4
MILIONI DI EURO |
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Una storia di riconoscenza.
Guglielmo Ascione è un ex collega di
AntonioDi Pietro che da magistrato archiviò
due fascicoli pericolosi per Tonino. Anche
lui, come l’ex pm di Montenero di Bisaccia,
ha appeso la toga al chiodo.
Nel 1995 fu lui ad archiviare un esposto di
Sergio Cusani che denunciava la
falsificazione di alcune carte (fornite dal
faccendiere Pierfrancesco Pacini Battaglia)
su cui Di Pietro aveva costruito il processo
Enimont. Cusani ebbe torto ma aveva ragione:
un anno dopo una perizia avrebbe accertato
che quei documenti erano contraffatti, ma
ormai l’esposto era seppellito.
Fu sempre Ascione ad archiviare altre accuse
compromettenti per Di Pietro, quelle del
pentito Salvatore Maimone, il quale aveva
sostenuto che un autoparco milanese gestito
dalla mafia godeva delle coperture di
magistrati tra cui proprio Tonino. Ed era
ancora Ascione, sia pure indirettamente, a
informare il collega che si stava preparando
un’ispezione ministeriale su di lui: secondo
una sentenza del 1997, l’ispettore Domenico
De Biase riferiva ad Ascione, il quale ne
accennava al giornalista Maurizio Losa, il
quale si confidava con Di Pietro.
Due anni fa il giudice Guglielmo Ascione,
diventato avvocato, era stato incaricato
dalla società che gestisce l’autostrada
Brescia-Padova di dirimere una faccenda
molto delicata, che richiedeva doti speciali
di mediazione con il ministero delle
Infrastrutture. Il legale doveva fare in
modo che la Serenissima ottenesse la proroga
della concessione autostradale. La decisione
spettava all’Unione europea e al ministero.
La consulenza fu assegnata il 30 giugno
2006, quando Tonino si era insediato da
poche settimane.
La vicenda fece scalpore per l’ammontare
della parcella (quattro
milioni di euro), ma soprattutto
per la scelta di Ascione.
Solo conflitto di
interessi?
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DI PIETRO: UN AMICO VALE
UN TESORO
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Ai bei tempi di
MANI PULITE Di Pietro si era
fatto due grandi amici: i
suoi ex inquisiti
Antonio D'Adamo e Giancarlo
Gorrini.
D'Adamo, proprietario della Edilgest, era un
amico talmente intimo da prestargli il suo
fugio per scappatelle, la garçonnière di via
Agnello 5 a Milano, con entrata anche da via
Santa Radegonda 8: quaranta metri quadri al
sesto piano, all’interno di una torretta
piazzata in mezzo a un terrazzone con vista
sul Duomo. All’interno, una boiserie
rivestita in legno, camera da letto,
soggiornino e zona pranzo semicircolare.
Gorrini è il personaggio che «prestò» i
famosi 100 milioni al nostro Tonino.
D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò
altri cento milioni, gli mise a disposizione
anche una suite da 5-6 milioni al mese al
Residence Mayfair di Roma, dietro via
Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno
e mezzo.
D’Adamo è quel personaggio che «prestò» a Di
Pietro cento milioni, oltreché elargirgli
vestiti alla boutique Tincati di corso
Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra
e altri infiniti privilegi della D’Adamo
card che staccava assegni anche per i
relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano
(una quindicina) acquistati all’agenzia
Gulliver di via San Giovanni sul Muro.
Questo fa parte del pacchetto di sterminati
favori (soldi, auto per sé e per la moglie,
incarichi e consulenze per moglie e amici,
impiego per il figlio, vestiario di lusso,
telefono cellulare, biglietti aerei,
ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni
al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini
ebbe a favorirgli. Proprio grandi amici.
Nulla di penalmente rilevante, sentenziò
incredibilmente la Procura di Brescia una
decina di anni fa: comportamenti che
tuttavia avrebbero senz’altro portato a
delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non
si fosse dimesso da magistrato.
Solo conflitto di
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DI PIETRO: UN TERREMOTO
PROVVIDENZIALE |
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Di Pietro inizia la sua grande attività di
immobiliarista con la casa di Curno dove
l’ex magistrato risiede tuttora.
Succede nel 1984: in via Lungobrembo, zona
Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un
immobile diroccato: una volta risistemato,
lui e la sua futura seconda moglie, Susanna
Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme.
Fu lei a contattare il proprietario, Leone
Zanchi, un contadino che di quel rudere non
sapeva che farsene; ogni intervento diverso
dalla cosiddetta «manutenzione
straordinaria», infatti, gli era proibito
dal piano regolatore. Accettò dunque di
vendere il casolare per trentacinque
milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna
Mazzoleni ereditò la concessione edilizia
richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima,
come detto una «manutenzione straordinaria».
E qui succede l'imprevedibile. Nottetempo un
TERREMOTO
localizzato proprio sotto la cascina ne
provoca il crollo.
«Del vecchio fabbricato», notarono due
periti comunali, «è rimasto solo il muro a
est, la restante parte non c’è più». Susanna
Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere
di ricostruire tutta la cascina come Zanchi
non aveva potuto fare. La provvidenza,
appunto.
Va da sé che l’ex proprietario andò fuori
dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar
grane tirando in ballo anche Di Pietro. Ma,
logicamente, non se ne fece nulla.
Solo conflitto di
interessi? |
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DI PIETRO E L'EQUO CANONE |
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Come fece di Pietro ad avere un appartamento
in centro di Milano a 100.000 lire al mese?
Ai tempi di
MANI
PULITE Di Pietro frequentava il
bel mondo milanese ma si verifico una
difficile situazione. Indagando sulle
tangenti, rischiava di interrogare di giorno
in tribunale gli amici che già frequentava
la sera.
Nell'inchiesta sull’Atm (Azienda trasporti
milanesi) di cui presidente era il
democristiano Maurizio Prada e
vicepresidente il socialista Sergio Radaelli,
tra le sigle di un libro mastro delle
tangenti spiccavano in particolare «Riva»,
una sigla che collegava a Prada e Radaelli.
Questi due facevano parte di un giro di
frequentazioni ad ampio raggio nella "Milano
da bere" (il sindaco Pillitteri, l’ex
questore Improta, l’industriale Maggiorelli,
il capo dei vigili Rea e moltissimi altri)
che aveva fatto tappa anche nella casa di
Curno dell’allora magistrato Di Pietro.
E qui successe un fatto strano che cambiò in
positivo la disponibilità immobiliare di Di
Pietro. Infatti, tre giorni dopo che
l’impaziente Repubblica aveva esplicitato i
nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli)
Di Pietro decise di stralciare le loro
posizioni dalla sua inchiesta. La posizione
di Radaelli, in particolare, sarà poi
archiviata su richiesta di Di Pietro. Le
responsabilità del cassiere socialista
saranno appurate solo qualche anno dopo. Per
farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli
era colpevole.
E proprio in quei giorni, quando il gip non
aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta
da Di Pietro per Radaelli, l’allora
magistrato ebbe a disposizione un
appartamento concesso a equo canone dal
Fondo pensioni Cariplo: contratto intestato
a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri
calpestabili (70 commerciali), 230 metri
cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia
234.753 il mese (100mila di canone e 134mila
per le spese di ristrutturazione pari a 20
milioni di lire). Questo in Via Andegari,
dietro Piazza della Scala. Un sogno.
L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato
che Di Pietro si rivolse dapprima a lui,
senza successo, ma che gli consigliò di
chiedere a Radaelli che allora era
consigliere della Cariplo in predicato di
vicepresidenza.
L’assegnazione fu anomala a dir poco: non
tanto perché venne ignorata ogni graduatoria
d’attesa (nell'Italia dei favori è normale,
anche se illecito) ma perché venne saltata
di netto l’apposita commissione affittanze,
che si limitò a ratificare una decisione
calata dall’alto.
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