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Ovvero: "ALTRI CONFLITTI DI INTERESSI"
 

 

l'AMICO DI DELBONO FA FORTUNA IN 4 ANNI

Il Giornale - 17 ottobre 2009

Dubbi sui bilanci della Connex Card, la società di Mirco Divani, possessore del bancomat affidato dal sindaco di Bologna all’ex amante.

L’azienda è in affanno, ma ottiene senza appalto varie commesse dalla Regione. E il fatturato schizza ad oltre 350mila euro

Tutte ipotesi, naturalmente, che sono al vaglio della Procura di Bologna che potrebbe aprire un nuovo fascicolo di inchiesta proprio sul misterioso bancomat di Mirco Divani, vecchio compagno Pci e amico di «salsicciate» dell’ex sindaco. Una tessera magnetica che Divani ha dato a Delbono e che questi ha girato a Cinzia Cracchi. «Soldi che avevo anticipato io a Divani per un affare immobiliare non andato in porto, mi pare 10mila euro», ha detto Delbono ai giornalisti al termine dell’interrogatorio di sabato.

Spiegazione che non spiega nulla. Il bancomat poteva prelevare fino a 1.000 euro il mese ed è stato usato dalla signora per quattro anni hanno fruttato 50mila euro, le somme non tornano. È stato disattivato nel periodo in cui è finita la love-story, e subito dopo Delbono ne ha ricevuto un secondo che egli stesso ha usato fino alla scorsa estate. Che coincidenza: ha smesso di utilizzarlo dopo l’elezione a sindaco. Il conto di Divani è appoggiato a Farbanca, un istituto molto particolare: ha un solo sportello e operatività specifica per professionisti della sanità. Perché Divani, che è un tecnico informatico, aveva soldi nella banca dei farmacisti? È stato Delbono a farglielo aprire, visto che poteva disporre a piacimento dei soldi? E tutto questo giro non potrebbe essere legato alle forniture di Divani alla sanità della Regione Emilia-Romagna, di cui Delbono era vicepresidente?

I bilanci della Connex Card Technologies srl, società con sede a Zola Predosa (Bologna) in via Cavour 5, parlano chiaro. Dicono che gli affari per l'amico di Delbono sono decollati grazie agli accordi con la Regione. Prima di allora, vacche magre. La società è stata fondata nel 2002 per «assemblaggio e commercializzazione di card a tecnologia polifunzionale. Nel 2003 registra 5.166 euro di fatturato e 7.490 di perdita, l’anno dopo il giro d’affari sale a 24.060 euro con un piccolo utile di 493 euro. La nota integrativa al bilancio fotografa le difficoltà: «Il mercato in cui opera la società vive un periodo di andamento altalenante - scrive Divani, amministratore unico -. Persistendo le difficoltà del nostro cliente principale, stiamo valutando nuovi scenari. Siamo fiduciosi che nei prossimi mesi l’attività abbia uno sviluppo interessante». In effetti, il 1° gennaio 2005 scatta la prima consulenza di Divani con Cup2000, la spa a capitale pubblico (Regione, Comune di Bologna e aziende sanitarie) che gestisce il servizio di prenotazione unica di visite mediche ed esami clinici. La Regione Emilia Romagna, di cui Delbono è numero due, è il primo azionista del Cup; per un periodo Delbono siede anche nel consiglio di amministrazione della società come vicepresidente. E nel Cup viene messa a lavorare Cinzia Cracchi dopo la rottura sentimentale con Delbono: ieri il direttore dell’azienda, Mauro Moruzzi, ha spiegato che la signora ha potuto salta- re le normali selezioni del per- sonale perché «proposta dal socio di maggioranza». Cioè la Regione. Cioè Delbono. Moruzzi ha poi annunciato il congelamento dei pagamenti alla società di Divani (pagamenti per 449mila euro nel 2009), in attesa di vederci chiaro. Alla prima consulenza ne seguono altre quattro. E i risultati sui conti di Connex Card si vedono: nel 2005 il fatturato sale a 36.416 e l'anno dopo a 49.075. Dalla relazione al 31 dicembre 2006 si evince che è cambiata ragione sociale: ora la ditta non fabbrica più tesserini elettronici ma «fornisce consulenze in materia informatica» e ha effettuato «un paio di forniture, chiavi in mano, di data center per conto di aziende clienti». Ma il salto avviene nell’esercizio 2007, quando Divani acquisisce la fornitura di computer per il progetto Sole (connessione on-line di tutti i medici di base della Regione). Il fatturato triplica (158.262 euro) e raddoppia ancora l'anno dopo (357.255 euro); in due esercizi si incrementa di sette volte.

Che cos’è capitato? Lo spiega sempre la nota integrativa al bilancio: è successo che alle consulenze si è affiancata «una seconda attività di vendita all’ingrosso di strumentazioni elettroniche, informatiche ed elettrotecniche» in quanto la società l’installazione delle postazioni informatiche dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta in ambito regionale». Il bilancio 2008 è firmato da Simonetta Tosi, moglie di Divani, che le ha girato le proprie quote. La signora lavora al Cup, quindi risulta al tempo stesso dipendente e fornitrice. Ecco dunque gli ultimi anni del Divani imprenditore: una

ditta in affanno, priva di referenze particolari, improvvisamente conquista consulenze e forniture da una società della Regione. Le ottiene in via fiduciaria, senza gare d’appalto nemmeno quando il giro d’affari con il Cup supera la soglia (200mila euro) che obbliga ad assegnare le forniture tramite gara pubblica. Invece per Connex Card e altre quattro ditte - a causa dell’«urgenza» - basta la semplice valutazione di cinque funzionari.

E nel portafogli di Delbono finisce il bancomat di Divani.

(ha collaborato Antonio Selvatici)

Solo conflitto di interessi?

 

Il modello Emilia: soldi e favori al fratello del capo

Il Giornale - 17 ottobre 2009

Errani finanzia Errani. Vasco, presidente pd dell’Emilia Romagna (oltre che della Conferenza stato-regioni), sovvenziona il fratello maggiore Giovanni, presidente della cooperativa Terremerse aderente a Legacoop. Tutto alla luce del sole, esistono delibere, perizie, fatture in una catena di stranezze e irregolarità. Che si spiegano solamente con il collaudato sistema di potere locale che sorregge le società rosse attraverso la triangolazione istituzioni-coop-partito. Un intreccio tra politica e affari che risalta nella storia di questa cooperativa agricola di Bagnacavallo operante tra Imola e il Ravennate. A cominciare dai nomi dei protagonisti: la famiglia Errani (Vasco, Giovanni e la figlia di quest’ultimo, Linda, sindaco della vicina Massa Lombarda, paese natale di tutti e tre); Guido Tampieri, anch’egli di Massa Lombarda, ex dirigente di Cgil e Pci-Pds-Ds, ex assessore regionale all’Agricoltura, ex sottosegretario del ministro De Castro nell’ultimo governo Prodi; Massimo Marchignoli, allora sindaco di Imola, ora deputato pd.

VASCO ERRANI

Siamo nel 2005. Terremerse naviga nei debiti per una serie di scelte gestionali criticate da molti soci e dalla locale Confederazione italiana agricoltori. Come risollevarsi? Semplice: si chiedono soldi alla Regione e favori alle istituzioni. Approfittando del piano regionale di sviluppo rurale, la coop di Errani Giovanni progetta un nuovo stabilimento vinicolo finanziato dalla Regione di Errani Vasco per un milione di euro (su una spesa prevista di due milioni e mezzo), mentre i Comuni di Imola e Massa Lombarda trasformano in zona residenziale ad alto indice un’area produttiva di Terremerse. I terreni resi edificabili vengono successivamente acquistati da Unipol Merchant Bank, Coop Adriatica e Federcoop Ravenna. Ciliegina sulla torta, dopo qualche mese la cantina viene ceduta nonostante l’esplicito divieto della Regione.

Il 14 novembre 2005 il dirigente regionale Carlo Basilio Bonizzi (l’assessore è Tampieri) finanzia il nuovo impianto enologico stabilendo che i lavori dovranno terminare entro il 30 aprile 2006 e che il contributo sarà erogato dopo i controlli. Ma il 30 aprile i cantieri sono ancora aperti perché Terremerse non aveva ancora ottenuto dal Comune di Imola il permesso di costruire, avendolo richiesto soltanto il 28 marzo. Il milione di euro rischia di saltare. Come salvarlo? Ecco che scatta il «soccorso rosso»: il 27 aprile la coop chiede un mese di proroga, l’11 maggio la Regione concede il rinvio, il 23 maggio il Comune sblocca i lavori. La giustificazione del ritardo è spassosa: la «prolungata piovosità del periodo invernale» che ha «impedito ai mezzi meccanici di entrare sul lotto». Peccato che l’inverno 2005-06 sia stato tra i più asciutti degli ultimi anni.

Il miracolo si compie. Terremerse ottiene il permesso di costruire il 23 maggio, e il 31 dichiara formalmente alla Regione che i lavori sono ultimati. Incredibile ma vero. Una settimana per costruire un grande stabilimento vinicolo. Non c’è bisogno di dire che la realtà è tutt’altra. Dal rendiconto ufficiale presentato il 15 giugno risulta infatti che i lavori sono iniziati il 22 febbraio, tre mesi prima che fossero autorizzati. Da notare che il Comune aveva imposto una serie di opere preliminari, tra cui «i preventivi adempimenti per le costruzioni in zone sismiche». Sono stati davvero eseguiti? Il dubbio è fortissimo. Anche perché Terremerse non fornisce neppure il certificato di agibilità e conformità edilizia che era tenuta a presentare assieme al rendiconto e alla dichiarazione di fine lavori. Una inadempienza clamorosa. Ma la Regione chiude un occhio, anzi tutti e due, e il 20 giugno Bonizzi attesta che «tutti i termini previsti sono stati rispettati». (segue)

Solo conflitto di interessi?

 

SORU LICENZIA IN TISCALI E ASSUME IN REGIONE

 

Per lui i licenziamenti non sono un grosso problema: da quando è governatore della Sardegna ha assunto in regione parecchia gente che proveniva proprio dalla sua azienda. Manager come Sergio Benoni, direttore editoriale messo a capo della Sardinia Media Factory, o Chicco Porcu, pubblicitario con seggio in consiglio regionale. Ma anche parecchia gente normale.

In questi anni la politica del personale decisa da Soru ha fatto arrabbiare parecchi dipendenti della regione. In procura è arrivato un esposto di impiegati che si sono ritrovati improvvisamente disoccupati pur conservando il posto di lavoro. Entravano al mattino, timbravano e per sei ore stavano a non far nulla. In compenso le loro mansioni venivano girate a un esercito di precari, per lo più provenienti da Tiscali. Questo è accaduto soprattutto nel settore Trasparenza e comunicazione, dove Soru ha assunto la bellezza di 118 persone. Contratti più o meno lunghi, lavori più o meno importanti, nonostante la regione abbia un ufficio stampa nutrito e ben pagato.

Conflitto di interessi?

 

DI PIETRO SALVA TRAVAGLIO

Intervista al senatore Tancredi Cimmino raggirato da Di Pietro

                                                                Il Giornale - 22 gennaio 2009

«Marco Travaglio la scrisse sull’Unità quella falsità della cassa ("scappò con la cassa dell'Udeur"), e io lo querelai, certo di vincere. Avrei vinto 100mila euro. Ma ritirai la querela.

Furono Silvana Mura e Antonio Di Pietro a chiedermelo. Prima rifiutai, ma poi mi convocarono al ministero, fecero pressioni, dissero “è un amico, lascia stare”».

«Sarei stato capolista al Senato per l’Idv... Certo non mi dissero “se ritiri la querela ti candidiamo”. Ma certe cose non c’è bisogno di dirle: non mi avrebbero candidato se gli avessi negato un favore».

«Rimasi capolista fino a pochi giorni prima del termine di presentazione delle liste».

Poi «.. il Giornale pubblicò la notizia che nel 1998 era stato chiesto il mio arresto e il rinvio a giudizio per associazione camorristica».

Fu prosciolto «Ma mi fecero fuori lo stesso».

«Il 20 marzo scrissi un sms a Di Pietro, segnalandogli la questione. Rispose così: “È una stronzata pazzesca”. Poi mi chiese di vederci a pranzo.

Avrei preferito che mi dicesse chiaro: non voglio rischiare che mi attacchino. Invece non disse una parola. Del resto lui fa sempre così, promette, non mantiene e scompare. Mi aveva chiesto di radicare il partito a Roma, disse che gli serviva la mia esperienza. Ci credevo».

«Altro che partito della legalità, certe cose non succedono negli altri partiti. Avrei potuto trascinarli in tribunale».

.....

«Di Pietro è un cinico approfittatore. E si circonda di capetti locali che il partito non lo vogliono costruire, perché vogliono conservare i loro incarichi senza competitori che rompano le uova nel paniere  Mi porto via mezzo partito, faremo un’associazione politica.

Poi mia moglie sta parlando con gli avvocati. Vuol riaprire la causa contro Travaglio per i danni morali che lei e i miei figli hanno subito in questi anni. Questa è la mia rabbia, ma che devo fa’?».

Solo conflitto di interessi?

 

I FRATELLI VELTRONI

 

1999 - CRAC DI 60 MILIARDI DI LIRE.

La Procura di Pisa ha chiesto il rinvio a giudizio per il crac Cosmopolitan di Valerio Veltroni, fratello del leader dei Ds, e per Guendalina Ponti, figlia del produttore risposatosi con l' attrice Sofia Loren. Il business Ponti - Veltroni, franato con il fallimento delle società Consorzio Tirrenia, Tirrenia golf club e Cosmopolitan film, nasceva dagli studios cinematografici fondati da Gioacchino Forzano durante il fascismo. Finiti in dissesto, vennero rilevati da Ponti, che negli anni Settanta li chiuse per tentare una speculazione immobiliare con cubature improponibili.

Negli anni Ottanta la figlia Guendalina, avvocato di attori famosi, e il suo compagno Veltroni, un ex funzionario del Pci trasformatosi in finanziere, ci hanno riprovato: con il progetto di un centro turistico con campi da golf, calcio e tennis, albergo di lusso, zona congressi e abitazioni. Da alcuni atti dell' inchiesta si intuisce la facilità con cui ottennero finanziamenti pubblici a fondo perduto o prestiti della Cassa di risparmio di Pisa e di altre banche pubbliche (per tanti miliardi). Veltroni con la società Itafin fu però travolto da speculazioni avventate sulle valute. Insieme a Guendalina non trovò più il denaro per completare le opere iniziate a Tirrenia.

Arrivò il dissesto, che provocò la disoccupazione dei muratori impegnati nei lavori.

Un' ispezione della Banca d' Italia su eventuali fidi facili della Cassa di Pisa esasperò uno scontro interno (tra ex craxiani e ulivisti).

Il rapporto fu inviato al magistrato Nicola Pisano, che raccolse voluminosi faldoni di atti. Il tam tam dei cronisti locali faceva intuire sviluppi clamorosi, quando arrivò da Roma il nuovo procuratore capo Enzo Iannelli, che valutò in modo meno "colpevolista" il caso Cosmopolitan: scontrandosi con il suo sostituto fino a togliergli l'inchiesta. Le affermazioni degli inquisiti fanno supporre che abbia alla fine prevalso la tesi di Iannelli anche se non sono mai stati dissolti  i dubbi su sospetti flussi di denaro, collegabili a volte a società "off shore" e a banche svizzere. (Ivo Caizzi)

 

1996 - SPARITI 1000 MILIARDI DI LIRE.

Ma Valerio Veltroni era esperto in certe alchimie della finanza , era già stato indagato 3 anni prima a Grosseto a proposito delle coop: sparirono 1000 miliardi di vecchie lire.

Anche di questa vicenda sono rimasti soltanto di dubbi perché a distanza di anni non tutti sanno cosa e' stato capace di combinare il fratello di Walter Veltroni. Mastella una sera a Porta a Porta, dopo le dimissioni dal governo Prodi, stava per "cantare" ma non l'ha fatto solo perché ha anche lui i suoi scheletri nell'armadio, Mastella ha solo accennato un ritornello per chi aveva orecchie da intendere.

Solo conflitto di interessi?

 

DI PIETRO E PRODI DOVEVANO SALVARE L'ITALIA

 

Correva l’anno 1995 quando la contessa Borletti che viveva a Londra proclamò: “Soltanto quei due (Di Pietro e Prodi) possono cambiare l’Italia”. I tempi erano difficili, la Prima repubblica finiva in macerie, il nuovo avanzava ma a stento. Romano Prodi girava in pullman l’Italia e Antonio Di Pietro, appena dismessa la toga, ancora meditava se buttarsi in politica. Fu allora che Maria Virginia Borletti, detta Malvina, la milanesissima erede delle macchine per cucire “Borletti, punti perfetti”, decise che era venuta l’ora di dare il suo personale contributo al cambiamento.
Il 22 maggio, davanti all’avvocato londinese Claudio Del Giudice, in Great Eastern street, firmò l’atto di donazione più straordinario nella storia della Repubblica: il 20 per cento dell’eredità del padre Mario sarebbe andato a Romano Prodi e ad Antonio Di Pietro, “le persone che più hanno da dire al nostro Paese e che riflettono la miglior parte degli italiani”.

Sette miliardi di lire in due, fu la stima dell’epoca: 3,5 miliardi a testa che avrebbero potuto, calcolarono preoccupati figli e fratelli, diventare ancora di più. E infatti chiusero i cordoni della borsa appena possibile. Ma di soldi ne erano già usciti tanti: 1,5 miliardi che i beneficiari giurarono di avere accortamente investito in attività politica. Fino al colpo di scena del 9 gennaio scorso, quando su Libero Antonio Di Pietro ha illustrato la destinazione di 300 dei 954 milioni da lui incassati dalla contessa: acquisto di case. Possibile?

Da Londra arriva un “no comment”. Non parla la contessa che voleva “cambiare l’Italia”, né i fratelli che le contestarono la donazione, e neppure i figli Federico e Francesca, quelli che protestarono: “Sprechi i soldi”. Alessandro Manusardi, il commercialista milanese che all’epoca seguiva gli affari italiani di Malvina, si sente però di “escludere in maniera assoluta che l’obiettivo della signora fosse il finanziamento di qualsivoglia acquisto immobiliare altrui”.

E qui cominciano le pene di Manusardi, alle prese con il 740 della contessa. In base alla legge può detrarre solo le donazioni ai partiti, non quelle ad personam; dunque si mette disperatamente in caccia di una ricevuta che attesti il passaggio delle somme dai due politici ai partiti di riferimento. Da Prodi ne ottiene una: le 198 mila sterline sono state girate al Comitato Italia che vogliamo, che ne rilascia regolare quietanza. Ma Di Pietro? “Ho parlato più volte col suo tesoriere, Renato Cambursano” racconta il commercialista. “Non sono mai riuscito a ottenere nemmeno un pezzo di carta”.

Guarda caso, in quel periodo c’era l'inchiesta “VALSELLA“che vide un conte Borletti andare in galera poiché socio al 50% di una società Bresciana che fabbricava mine antiuomo e che finivano in Iraq dopo una triangolazione con Singapore.

 

I miliardi della contessa non hanno salvato l'Italia: quelli a Prodi sono finiti in una campagna elettorale, quelli a Di Pietro hanno solo aggiunto delle case alle sue proprietà. Solo conflitto di interessi?

 

ANTONIO DI PIETRO E I 40 MILIONI

 

Incredibile: tutte le persone, formazioni politiche, partiti più o meno grandi, dopo essersi alleati con lui per il voto amministrativo, politico o europeo, alla fine lo trascinano in tribunale accusandolo di non aver diviso equamente i soldi. Al momento è in corso un procedimento contro Di Pietro presentato dall’ex amico Elio Veltri per ottenere legittimamente parte dei rimborsi incassati, come risarcimento delle elezioni europee del 2004, dalla formazione denominata «Lista Di Pietro-Occhetto».

Come è noto i rimborsi elettorali sono a favore dei partiti che hanno partecipato alle elezioni e devono essere gestiti ed amministrati dai partiti stessi.

E qui sorge il problema, perché Antonio Di Pietro, oltre al partito chiamato Movimento politico, ha costituito un’Associazione composta da lui stesso, dalla moglie Susanna Mazzoleni e dall’onorevole Silvana Mura. Curiosamente questa Associazione ha lo stesso nome del partito-movimento: c’è dunque l’«Associazione Italia dei valori» e c’è il «Movimento Italia dei valori».

I due soggetti sulla carta hanno organi sociali e rappresentanti legali diversi: la Mura rappresenta legalmente l’Associazione, il presidente Tonino rappresenta legalmente il Movimento. A richiedere, incassare e gestire i rimborsi del «Movimento politico» sarebbe in via di fatto l’«Associazione» di famiglia, attraverso la deputata-rappresentante legale Silvana Mura. La Camera non effettua il benché minimo controllo e paga senza batter ciglio.

Quello che emerge dalle carte processuali è invece che la Mura è «solo» la rappresentante legale e il tesoriere dell’associazione di famiglia di Antonio Di Pietro. Non esiste alcun verbale di assemblea del Partito-Movimento che nomini quale proprio rappresentante legale Silvana Mura. Né esiste alcuna delibera dell’esecutivo nazionale del Partito-Movimento che Di Pietro definisce «il massimo organo assembleare» dello stesso.

In pratica tutto il movimento di denaro attribuito all?italia dei Valori non passa sotto il controllo degli organi del partito ma viene amministrato dalla famiglia Di Pietro. Altro capitolo dolente, collegato ai rimborsi elettorali, quello dei rendiconti e dei bilanci dell’Idv. Per Tonino è tutto pulito e regolare: «Ho pubblicato su internet il rendiconto del partito che è stato ratificato dal mio esecutivo nazionale» si legge nelle memorie consegnate ai giudici dal suo avvocato, Sergio Scicchitano. In realtà se si va un po’ più a fondo si scopre che ad approvare il rendiconto relativo alle elezioni del 2004 è stato il solo Antonio Di Pietro, il 31.3.2005, quale presidente dell’Associazione, e non del Partito. Non esiste alcun verbale di approvazione da parte dell’assemblea del Partito, né per il 2004 né per gli altri anni, precedenti e successivi.

Per tornare all’Idv, dalla contabilità del 2004, si scopre che Di Pietro si è autoaccreditato la modica cifra di 432mila euro col generico titolo di «rimborsi spese», decine di migliaia di euro risulta essersi autoaccreditata Silvana Mura, e questo senza contare il milione e passa di euro che i partiti (e non le associazioni di famiglia che si sostituiscono) possono indicare in modo forfettario pari al 30 per cento delle spese supportate da documenti. Tutto senza nessun controllo sostanziale. E così, anche dalla lettura dei rendiconti «Italia dei valori» dal 2001 in avanti qualche legittimo interrogativo è impossibile non sollevarlo. Spiegazioni, ad esempio, sulle centinaia di migliaia di euro destinate a vari «comitati regionali»? Nessuna. Così come per altre spese, inclusi i 600mila euro formalmente iscritti come fondi per le pari opportunità, e che proprio la responsabile delle donne dell’Idv afferma non avere mai visto.

In ballo ci sono non meno di 40 milioni di euro di fondi elettorali. Il problema vero è capire perché, giocando tra Movimento e Associazione, tra equivoci e omonimie, tra encomiabili dichiarazioni d’intenti e comportamenti contrari, il paladino della trasparenza rende tutto così opaco.  Solo conflitto di interessi?

 

ANTONIO DI PIETRO IMMOBILIARISTA

 

Ma quante case ha l’onorevole Antonio Di Pietro?

E con quali soldi le ha comprate?

Con i rimborsi elettorali?

 

Un suo ex socio lo ha denunciato a proposito della società immobiliare Antocri (acronimo di Anna, Toto, Cristiano, i figli di Di Pietro) e delle presunte commistioni con i patrimoni dell’Italia dei Valori. Secondo l’ipotesi iniziale, Di Pietro avrebbe utilizzato i soldi del partito per acquistare appartamenti arrivandone ad affittare alcuni all’Idv, di cui era presidente. Un modo di fare penalmente irrilevante, secondo l’accusa ed infatti è stato prosciolto. Conflitto di interessi?

Il 16 marzo 2006, in quel di Bergamo, il padre-padrone dell’Idv si aggiudica alle buste, in condizioni burrascose e rocambolesche, un signor appartamento (vedi articolo sotto) a un prezzo scontatissimo dovuto alle cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare dell’Inail. Roba da Svendopoli per vip. Lui non appare mai, fa tutto l’amministratore della sua società immobiliare Antocri (che però non agisce in questa veste), nonché compagno di Silvana Mura, deputata Idv, tesoriera del partito e socia dell’Associazione IdV. Visti i precedenti, le confusioni di ruoli, le ambiguità fra «movimento» e «associazione», le locazioni degli immobili di proprietà di Di Pietro al partito dello stesso Di Pietro (gli appartamenti di cui parleremo dopo in via Casati a Milano e in via Principe Eugenio a Roma) non è stata una sorpresa scoprire che anche su quest’ultimo immobile qualcosa non quadra: l’ha comprato Di Pietro, attraverso il convivente della Mura, la quale ha intestate le utenze di casa che corrispondono perfettamente a quelle un tempo in uso all’ex sede della tesoreria nazionale di via Taramelli 28. Conflitto di interessi?

La società An.to.cri è nata con un capitale sociale assai modesto (appena 50mila euro), posto ancora che nel 2005 Di Pietro ha dichiarato un imponibile di 175mila euro e nel 2006 di 189mila, l’interrogativo sulla provenienza dei capitali per l’acquisto degli appartamenti, è dovuto per una personalità pubblica del suo calibro. Specie se ci si sofferma a sbirciare nel patrimonio immobiliare di quest’uomo che anche quando indossava la toga, non sembrava contenersi nello shopping edilizio: una villa con giardino a Curno, e di lì a poco, nel 1994, una nuova villetta, attaccata alla precedente, di otto vani. L’anno appresso Di Pietro compra un’abitazione da 300 metri quadri a Busto Arsizio, che gira prontamente al partito dopo aver acceso un mutuo agevolato per l’80 per cento del totale. Tempo qualche annetto e, una volta eletto al Parlamento europeo, fa il bis con un bilocale nel centro di Bruxelles: quanto l’abbia pagato non è noto. Arriviamo così al 2002 allorché l’ex ministro delle Infrastrutture si accasa in un elegante quarto piano in via Merulana, a Roma: altri otto vani, per un totale di 180 metri quadrati, pagato intorno ai 650mila euro grazie anche a un mutuo di 400mila euro acceso con la Bnl. L’anno dopo, nella natia Montenero di Bisaccia, Di Pietro cede al figlio Cristiano un attico di 173 metri quadrati: «Sei vani e mezzo poi ampliati a otto e a 186 metri quadrati (più 16 di garage) - analizza la Voce - grazie al condono edilizio del 2003. La spesa sostenuta è all’incirca di 300mila euro». Conflitto di interessi?

Gli alloggi per i figli
Non passano due mesi e alla fine di marzo, l’ex pm compra a Bergamo un bel quarto piano, per i figli Anna e Toto: 190 metri quadri in un signorile palazzetto liberty in via dei Partigiani. Lo stesso giorno, con lo stesso notaio, la moglie di Tonino fa suo un appartamento di 48 metri quadrati, sempre al quarto piano, oltre a due cantine e a un garage: si parla di una cifra oscillante intorno agli 800mila euro, ma non c’è conferma nemmeno su chi abbia provveduto all’esborso e in quale misura. Il 2004 è alle porte, e il nuovo appartamento di 190 metri quadri acquistato per 620mila euro in via Felice Casati a Milano - come da rogito stipulato in aprile - Di Pietro lo intesta alla Srl Antocri. Poi per un milione e 50mila euro la medesima società immobiliare fa suoi dieci vani (190 metri quadri) in via Principe Eugenio a Roma, dove - stando al bilancio 2005 dell’Idv - trasloca la sede nazionale di rappresentanza politica del partito, fino al giorno prima ubicata in via dei Prefetti 17». Per i due locali Tonino si rivolge alla Bnl e si carica due mutui sulle spalle: 276mila euro da saldare entro il 2015 per la casa milanese, 385mila per quella romana (scadenza 2019). Le pesanti rate Di Pietro inizialmente le ricaverà (salvo poi ripensarci quando scoppia lo scandalo) dal pagamento dei canoni d’affitto versati all’Antocri da un inquilino eccellente: la sua Italia dei Valori. Solo conflitto di interessi?

Mattone a Bergamo
Non è finita. Alla vigilia di Natale del 2005, Susanna Mazzoleni, moglie di Di Pietro e madre dei tre figli, compra un piccolo appartamento in via del Pradello a Bergamo. Poche ore dopo acquista anche un ufficio di quattro vani nella stessa palazzina. Spesa approssimativa? Tra i 400 e 500mila euro. L’anno successivo, come detto, Tonino compra all’asta con offerte segrete la casa di via Locatelli, sempre nella città orobica. Mentre l’anno dopo ancora, per una spesa-lavori consistente (decine, se non centinaia, di migliaia di euro) inizia a ristrutturare la masseria di famiglia in quella Montenero di Bisaccia dove l’ex ministro delle Infrastrutture, a dar retta al «catasto dei terreni» possiede 33 «frazionamenti» pari a 16 ettari di proprietà, in parte ereditati, in altra parte acquistati da parenti e familiari. Secondo la Voce (ma ancora non c’è traccia nelle visure camerali) Di Pietro avrebbe acquistato anche un altro appartamento per la figlia, 60 metri in piazza Dergano a Milano. Solo conflitto di interessi?

La società bulgara
Di Pietro in aula ha spiegato d’essersi dato al mattone dopo aver venduto l’ufficio di Busto Arsizio (a 400mila euro, 100mila li ha dovuti restituire alla banca per il mutuo) e con il ricavato ha acquistato gli appartamenti affittati all’IdV: quello di via Felice Casati a Milano - acquistato dalla Iniziative Immobiliari di Gavirano, Gruppo Pirelli Re - e l’altro, in via Principe Eugenio a Roma (alienato nel 2007). Ha detto che se tornasse indietro non rifarebbe quello che ha fatto, anche se la sua passione per gli affari immobiliari ha travalicato i confini nazionali: Tonino possiede infatti il 50% della Suko, una srl bulgara con sede a Varna. A fronte di quattro milioni di euro spesi per comperare immobili fra il 2002 e il 2008, l’ex pm ha incassato dalle vendite all’incirca un milione di euro, scremati dalle rimanenze calcolate per i mutui. Niente di penalmente rilevante, come dicono gli ex colleghi di Tonino. Ma i conti non tornano. (dal mensile «la Voce delle voci»). Solo conflitto di interessi?

 

IL FIGLIO DI DI PIETRO

 

Favori, ricatti, raccomandazioni. Legami trasversali con i politici, contatti amicali con i vertici delle forze dell'ordine, in una girandola di conversazioni che lo pone al centro di una «rete» di enorme potere.

Cristiano Di Pietro

L'inchiesta di Napoli sugli appalti esalta la figura di Mario Mautone, ex provveditore alle Opere Pubbliche della Campania, finito agli arresti domiciliari durante il blitz della scorsa settimana. E svela i suoi rapporti controversi con la famiglia di Antonio Di Pietro, quando quest'ultimo era ministro delle Infrastrutture.

Numerose intercettazioni allegate agli atti dimostrano come il figlio Cristiano, consigliere provinciale a Campobasso per l'Italia dei Valori, tentasse di «sistemare» gli amici e danno conto delle preoccupazioni del padre per tenerlo fuori dall'indagine.

L'informativa allegata agli atti ricostruisce i rapporti tra Cristiano Di Pietro e Mario Mautone. «Di Pietro — è scritto nel documento — chiede alcuni interventi di cortesia quali: affidare incarichi a persone da lui segnalate anche al di fuori degli ambiti di competenza istituzionale; affidare incarichi ad architetti da lui indicati e sollecitati anche da Nello Di Nardo; interessi di Cristiano in alcuni appalti e su alcuni fornitori.

Naturalmente le sue richieste vengono subito esaudite. "Gli ho dato l'incarico! Poi non l'ho ancora dato a lei! Lo passerò sempre a te e poi ce lo farai avere tu!", gli dice Mautone». Conversazione dell'8 giugno 2007.

Cristiano: «Poi un'altra cosa, non so se la puoi fare questa cosa o meno... se hai la possibilità... ». Mautone: «Dimmi, dimmi».

Cristiano: «Io ho un amico però è ingegnere e sta a Bologna, volevo sapere se su Bologna c'era possibilità di trovargli qualcosa...».
Mautone: «Adesso vediamo, ci informiamo subito e vediamo». Il rapporto tra i due si interrompe il 29 luglio 2007. «Mautone gli comunica di essere stato trasferito. Cade la comunicazione e Di Pietro non risponderà più alle telefonate». Il giorno dopo Aniello Formisano incontra Mautone, non sanno che le loro parole sono registrate da una microspia. E Formisano rivela: «Quello ha avuto qualche input e si è messo a posto... mi ha detto, figurati nemmeno al telefono suo lo dice — il telefono di Nello — Perché secondo me lo tiene sotto pure». Conflitto di interessi?

 

WALTER VELTRONI & FRANCESCO RUTELLI

 

C’è una cosa che in queste giornate turbolente Walter Veltroni fatica a ricordare: di essere stato sindaco di Roma.

E di aver portato la fascia tricolore negli anni in cui Alfredo Romeo concluse gli affari più lucrosi con la capitale.

Forse se n’è dimenticato lui stesso. Forse non c’era. Se c’era, dormiva.

Perché è difficile pensare che il numero uno del Pd, il «dittatore democratico» che dava lezioni di «bella politica», il leader che voleva saltare dal Campidoglio a Palazzo Chigi si sia fatto passare sopra la testa tutti quegli intrighi.

I primi affarucci risalgono ai tempi del sindaco piacione, Francesco Rutelli che a fine Anni ’90 affidò all’imprenditore napoletano la gestione del patrimonio immobiliare del Comune.

 L’appalto consentì a Romeo di condurre la vendita di 1.300 case nel centro storico di Roma a prezzi di realizzo: tre camere a piazza Navona a 60 milioni di lire, 30mila euro di oggi, roba che non ci paghi nemmeno un anno di affitto. La radicale Rita Bernardini, allora consigliere comunale oggi deputato Pd, fece il diavolo a quattro, ma il sindaco tacque. Poi fu eletto Veltroni. Risultato: gli elenchi delle case in vendita finirono in internet, e morta lì. Conflitto di interessi?

Ma il vero affare fu il cosiddetto Appaltone: la manutenzione di 800 chilometri di strade cittadine.

Questa è la vicenda più interessante perché interamente gestita dalle giunte veltroniane e citata a raffica nelle intercettazioni di Napoli tra Romeo e il parlamentare democratico Renzo Lusetti. Un appalto mastodontico, 720 milioni di euro per nove anni. Quattro conti e anche la casalinga di Tor Pignattara si rende conto che il comune di Roma sborsa la bellezza di 100mila euro all’anno per ogni chilometro di strada. A Firenze il sindaco Domenici ne prevede 9.250 (più di dieci volte in meno), Cofferati a Bologna 5.500. Forse che l’asfalto capitolino è più delicato che in piazza Maggiore? A Roma cade così tanta neve da sradicare più sampietrini che lastroni di piazza della Signoria? O sul raccordo anulare si aprono più buche che sulle altre tangenziali? Misteri bituminosi.

Che quell’appalto sia stato un disastro, i romani se ne sono accorti il mese scorso con le piogge che hanno allagato e squarciato le strade.

Solo conflitto di interessi?

 

RENATO SORU

 

Prima impallinato dai suoi in Consiglio durante il voto sulla legge urbanistica, poi la bega del conflitto di interessi acuita dopo l’acquisto dell’Unità, quindi le inchieste della magistratura che fanno le pulci ai suoi appalti, poi le spericolate operazioni immobiliari in riva al mare. Proprio lui, il paladino delle coste, l’eroe dell’anti scempio.

Quello che fa tremare maggiormente il governatore, tuttavia, è il cosiddetto caso Saatchi & Saatchi. La Regione dovrà pure farsi pubblicità, no? Ecco pronto un mega appalto da 56 milioni di euro per il quale il pm cagliaritano Mario Marchetti ravvisa i reati di abuso d’ufficio e falso ideologico. Cinquantasei milioni di euro, mica bruscolini: e adesso Renato Soru sente puzza di rinvio a giudizio.

Tutto nasce nel 2006 quando si decide di affidare la pubblicità istituzionale della Regione a una ditta esterna. Nelle sedute della commissione che deve verificare i progetti in gara succede di tutto: verbali accantonati, votazioni al limite del ridicolo. Insomma, quel lavoro doveva andare per forza alla Saatchi & Saatchi. Nel mirino della magistratura finiscono il governatore in persona, il dirigente regionale Fulvio Dettori, il rappresentante del colosso della comunicazione Fabrizio Caprara, i componenti della commissione che aggiudica la gara e i responsabili del consorzio Sardegna Media Faactoring, a cui sarebbe andato in subappalto un terzo dei lavori e che, guarda caso, annovera tra i suoi componenti imprese sarde al cui vertice figurano nomi che hanno collaborato o hanno avuto un ruolo dirigenziale in Tiscali, come i fratelli Benoni. Un pasticcio, insomma. Per il pm il regista di tutto è Soru perché, si legge negli atti di chiusura dell’inchiesta: «Agiva d’intesa con Caprara e con i fratelli Benoni, determinato Dettori a influire sui componenti della commissione perché il servizio di pubblicità fosse aggiudicato alla Saatchi & Saatchi». «Sono un uomo onesto», s’è sempre difeso Soru che, con le spalle al muro, ha bloccato tutto e annullato il mega appalto milionario. Conflitto di interessi?

Una mattonata in testa per il governatore che, a proposito di mattoni, ha un’altra grana sul cantiere di Funtanazza. Il patron della Tiscali, che di soldi ne ha bizzeffe, nel 2003 si mette in testa di comprare, per circa 7 milioni di euro, un bel po’ di terreno a un passo dal mare, nel comune di Arbus. «Lì sorge una vecchia colonia per i figli dei minatori - pensa il neopatron dell’Unità -, perché non farci invece un bell’albergo con tanto di piscina, centro benessere e impianto sportivo?». Ma come? Il tutore delle coste sarde, il peggior nemico dei palazzinari adesso si arma di cazzuola e cemento? Sì, ma appena appena e oltre i 300 metri dal mare, lì dove si può, ed è quindi tutto regolare. Ma scoppia il putiferio politico con l’opposizione che attacca lancia in resta: in quell’area, prima della giunta Soru, si poteva fare solo manutenzione ordinaria e straordinaria e il governatore s’è fatto una legge su misura per demolire tutto e costruire il mega hotel. Un conflitto di interessi grande come una casa anzi, grande come un albergo. Lui ha cercato di difendersi: «Ma quale conflitto di interessi... Ho acquistato Funtanazza nel 2003, prima di entrare in politica, prevedendo per l’aerea un progetto di recupero». Peccato che mister Tiscali sia sceso in campo nell’agosto del 2003 («ormai mi sono impegnato in politica») e l’acquisto dell’area è dell’11 dicembre 2003. Poi ci si mette la commissione edilizia che blocca il progetto perché mancano dati e relazioni tecniche e paesaggistiche e, insomma, sfiancato, Soru è costretto a mollare anche quel colpo: «Ok, per evitare strumentalizzazioni ritiro il progetto e metto tutto in vendita». Peccato che ora non possa vendere alcunché, visto che il bene dev’essere ceduto al comune di Arbus perché sono scaduti tutti i termini. Conflitto di interessi?

Blind trust

Soru, sollecitato dal partito, affida tutte le sue partecipazioni azionarie a Gabriele Racugno, un docente di Cagliari.
Quando Alberto Statera su Repubblica ha chiesto di rispondere a chi «ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieri" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al Giornale », Soru ha liquidato sprezzantemente come «sciocchezze» quelle domande sacrosante eppure trattate come spregevoli insinuazioni. Conflitto di interessi?

 

ITALIA DEI VALORI IN CAMPANIA

 

Francesco Barbato, deputato IDV, in un’intervista a Panorama ha sbottato: «O facciamo pulizia o me ne vado». L’onorevole Barbato, che viene da Camposano di Nola, ha aggiunto: «Mi sospendo dagli incarichi dell’Idv in Campania perché qui nel partito spuntano camorristi, strane facce, gente alla quale io nemmeno stringerei la mano. Questo è il primo passo».

Il riferimento, neanche tanto velato, è alla vicenda di Americo Porfidia, un altro deputato campano dipietrista, attorno al quale si sta consumando una vicenda pericolosissima per l’immagine dell’Italia dei Valori. Porfidia, che è anche sindaco di Recale, comune della provincia di Caserta, si è autosospeso dal partito dopo le notizie, circolate con insistenza, di un suo coinvolgimento in un’inchiesta sulla criminalità organizzata condotta dalla Dda di Napoli. «Le pare che quando riapre la Camera mi debba sedere a fianco del collega di partito Americo Porfidia, indagato per camorra dal brillante e coraggioso pubblico ministero che conduce le inchieste sui Casalesi?», ha rincarato Francesco Barbato.

Le accuse La vicenda ha contorni preoccupanti, Porfidia appare come una delle persone che avevano rapporti istituzionali con l’ex provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise, Mario Mautone, al quale si sarebbe rivolto, come sindaco, per chiedere chiarimenti su investimenti pubblici. L’informativa degli investigatori precisa che a carico del deputato dipietrista la squadra mobile di Caserta ha aperto un procedimento penale per l’ipotesi di reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Accusa gravissima. Conflitto di interessi?

Qualche settimana fa le cronache puntarono i riflettori su Cosimo Silvestro, ex capogruppo alla Regione Campania, perché sull’auto blu in suo uso viaggiava regolarmente, con tanto di paletta per farsi largo nel traffico, un imprenditore Ciro Campana, noto alle cronache locali e ai carabinieri perché arrestato nel ’94 nell’ambito dell’operazione “Picasso”, assolto da tutte le accuse nel 2006, ma fermato in compagnia di pregiudicati vicini ai clan camorristici. In questo caso, è stato lo stesso Di Pietro a chiedere le dimissioni di Silvestro. Conflitto di interessi?

In regione toccherà a Marrazzo, l’unico vero eletto con l’IDV, fare il capogruppo regionale. La famiglia di Marrazzo, non lui, è impegnata nel settore dello smaltimento dei rifiuti. Il fratello Angelo ha diverse imprese che praticano questo tipo di business ma ad alcune è stata rifiutata la certificazione antimafia. Conflitto di interessi?

 

SORU & DE BENEDETTI

 

Il 25 novembre 2008 scorso il governatore della Sardegna Renato Soru ha dato le dimissioni.

Venti giorni dopo Soru firmava una convenzione con la Sorgenia, società del gruppo Cir dell’Ingegnere, attiva nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, per la costruzione di un mega impianto, nei pressi di Cagliari. Un bel favore all’amico De Benedetti che è lo stesso De Benedetti socio di Tiscali, di cui il governatore dimissionario è il padre-padrone. Tutto chiaro come il sole. Anzi, di più: come un pannello solare. E per questo cadeau, Soru ha già pure detto di sì allo spostamento di un torrente, manco fosse Mosè.

Altre ditte, circa una quarantina, tra le quali la Trevi Energy spa, erano interessate all'opera.

Tuttavia si preferisce l’amica Sorgenia, che peraltro già produce moduli fotovoltaici a Villacidro, proprio vicino a Sanluri, e a Marrubiu, in provincia di Oristano. Alla società dell’Ingegnere servirebbero almeno 200 ettari per piazzare i propri pannelli solari nella zona di Macchiareddu Tantini. Il Consorzio ne possiede un po’ di ettari, ma non così tanti. I restanti 160 andrebbero espropriati ai privati. Niente di male, solo che il meccanismo messo in piedi nella convenzione è il seguente: il Consorzio espropria su delega della Provincia e poi cede tutto a Sorgenia per permetterle di costruire l’impianto. E chi paga? Be’, Sorgenia. Ma attenzione: nel patto c’è scritto che la società è pronta a sborsare la somma necessaria a partire dai valori agricoli medi che sono generalmente molto bassi. Pagherà pure gli eventuali incrementi di prezzo dei terreni, questo sì; ma soltanto ove riconosciuti con sentenza in corte d’Appello, qualora sorgano grane con i proprietari. Sorgenia parteciperà agli eventuali contenziosi e, comunque, non sborserà - per le spese generali, compresi gli onorari in genere alti in questi tipi di cause - più di 100mila euro. Noccioline, insomma.

Un gran bell’accordo, non c’è che dire. E poi c’è un altro inghippo che però viene aggirato alla grande: nell’area dove dovrebbe sorgere la centrale solare di De Benedetti c’è un fiumiciattolo coi suoi affluenti. Che si fa, quindi? Si blocca tutto? Non se ne fa nulla? No, niente problema: si sposti pure il torrente. Nell’accordo c’è scritto: «Premesso che l’area dell’agglomerato industriale... risulta attualmente attraversata da un canale artificiale di drenaggio denominato Rio Cocodi e da alcuni canali minori ad esso affluenti, interferenti con l’impianto solare termodinamico... si modificherà il tracciato del Rio Cocodi». Conflitto di interessi?

 

PECORARO - IL MINISTRO TURISTA

 

Alfonso Pecoraro Scanio nell'ultimo governo Prodi è stato ministro dell'Ambiente. Sotto accusa per lo scandalo monnezza in Campania, ha sempre detto di non sentirsi primo responsabile. Però, quando si è candidato con la Sinistra arcobaleno alle ultime Politiche, è stato dirottato in Puglia perché i vertici del partito temevano reazioni negative tra gli elettori di Napoli e dintorni.

Come leader dei Verdi, è stato accusato di aver eliminato tutti i dissidenti. Per lui hanno fatto le valigie i vari Ronchi, Manconi, Scalìa e Manconi. In compenso, Pecoraro ha promosso a senatore suo fratello (ed ex calciatore professionista) Marco Pecoraro Scanio.

Una inchiesta della procura della Repubblica di Potenza lo ha coinvolto quale ministro dell'Ambiente, indagandolo per associazione a delinquere e corruzione per alcuni rapporti ipotizzati dai magistrati con imprenditori legati allo smaltimento dei rifiuti e al titolare di un'agenzia di viaggi specializzata in vacanze di lusso, affitto di yacht e velivoli oltre che nel provvedere anche a organizzazione di servizi di scorta. Gli atti di chiusura dell'indagine sono stati trasmessi per competenza al Tribunale dei Ministri.

Secondo il settimanale l'Espresso, nel 2007 Alfonso avrebbe viaggiato sette volte in otto mesi. E non ha mai sborsato un centesimo. Pecoraro è stato a Miami, Parigi, Normandia, Saturnia, Perugia e Milano. Sempre in alberghi extra-lusso e con spostamenti anche via elicottero. Per Pecoraro ha sempre pagato un amico imprenditore, il quale avrebbe acquistato anche 18 ettari di terreno in provincia di Viterbo (area destinata esclusivamente all'agricoltura) per realizzare un relais con annessa villa destinata all'ex ministro. Solo conflitto di interessi?

 

GLI AFFARUCCI DI PRODI

 

Aiuti a parenti e amici: il nipote Luce, il consuocero Pier Maria, l'imprenditore coinvolto in Mani pulite: nel giugno 2007 Romano si dà da fare per dare una mano a tutti.

Pensa ad affari, aiuti pubblici, finanziamenti. Telefona o fa telefonare. Le sue chiacchierate (e quelle degli stretti collaboratori) vengono ascoltate dai magistrati di Bolzano. Ora sono sul tavolo della Procura di Roma, che dovrà stabilirne l'eventuale rilevanza penale. Le intercettazioni risalgono al giugno 2007. Sono pubblicate su Panorama in edicola oggi 29 agosto 2008. Nessuno risulterebbe iscritto nel registro degli indagati.

All'epoca dei fatti, il Professore è a Palazzo Chigi. Il Pd è in fase embrionale e la maggioranza di centrosinistra scricchiola. I magistrati ascoltano le conversazioni di Prodi e dei suoi collaboratori: a Bolzano sono a una svolta nell'inchiesta per corruzione e riciclaggio sulla vendita dell'Italtel dell'Iri alla Siemens, avvenuta negli anni Novanta con Prodi alla presidenza del colosso di Stato.

Panorama spiega che tra i fondi neri del gruppo tedesco spunta un bonifico da 5 milioni di euro a favore della Goldman Sachs, advisor nell'operazione e società dove hanno lavorato Prodi e molti suoi fedelissimi. All'epoca stretto collaboratore di Prodi era Alessandro Ovi. I magistrati mettono sotto controllo i suoi telefoni. E vengono a galla una serie di colloqui per risolvere problemi a parenti o amici.

Per esempio, ci sarebbero le chiacchierate per finanziare le attività scientifiche di un apprezzato primario all'istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. Si tratta di Pier Maria Fornasari. È consuocero di Prodi ed è in prima linea con la banca dell'osso della Regione Emilia Romagna. Il primario invoca finanziamenti pubblici. Prodi si sarebbe fatto in quattro, coinvolgendo anche i ministri Livia Turco (titolare della Sanità) e Fabio Mussi (università e ricerca scientifica). Secondo Panorama, il Professore avrebbe chiesto una mano pure a Ovi, all'economista Daniele De Giovanni, alla sua segretaria Daniela Flamini, al capoufficio stampa Sandra Zampa. Secondo le registrazioni, Ovi si sente con la Flamini. Dicono che il premier ha organizzato una riunione «con Mussi e la Turco. Dopo di loro ha passato tutto a De Giovanni». Le chiacchierate sui finanziamenti sarebbero decine. C'è preoccupazione: se Fornasari ne risultasse beneficiario, scoppierebbe il finimondo. Si deve trovare una via di fuga. Ovi telefona al primario: Prodi «dice che bisogna accelerare la costituzione del soggetto». E poi: «(...) perché arrivino i finanziamenti bisogna farli arrivare nel posto giusto». Non c'è solo il consuocero. Prodi si sarebbe preoccupato anche del nipote Luca, imprenditore e figlio del fratello del premier.

Panorama scrive che per aiutare il parente, Prodi avrebbe chiesto una mano a Claudio Gavazza, presidente del colosso farmaceutico Sigma Tau. Nei primi anni Novanta, Gavazza finì più volte in carcere: collaborò dopo la scoperta di oltre due miliardi di tangenti pagate a politici e a Duilio Poggiolini. Torniamo a Luca: ha il 20 per cento e vorrebbe far saltare il patto di sindacato nella Cyanagen, azienda bolognese titolare di diversi brevetti. Luca sognerebbe di sbarazzarsi di un socio, la Euroclone gruppo Celbio, che detiene il 24 per cento.

Il nipotino chiede aiuto a zio Romano. Lui s'impegna. Entrano in campo Gavazza e il solito Ovi. Quest'ultimo parla al premier: «Ho parlato con il suo commercialista (di Luca, ndr) che ha convenuto con me: i patti sono stati fatti in un momento che si era con l'acqua alla gola perché gli hai dato tutto (...)». Il suggerimento dello zio è: non chiedere l'acquisto diretto della quota di Euroclone. «Potremo fare anche un'altra società» dice Prodi a Ovi «ci sto anch'io a prestargli i soldi». Tempo dopo, il Professore suggerisce di svuotare la società in comune, senza avvertire il socio.

Tra Prodi e Gavazza c'è un rapporto così solido che il premier lo coinvolge nella nascita del Pd. Per Panorama, da una parte Ovi chiede all'industriale di sponsorizzare un sondaggio nazionale a Mannheimer per le primarie del 14 ottobre. Dall'altra, Gavazza chiede agevolazioni fiscali per la fondazione scientifica del suo gruppo farmaceutico. Nel tardo pomeriggio di ieri, Prodi rompe il silenzio: «Sono fatti di nessuna rilevanza dal punto di vista sia giuridico sia penale».

Solo conflitto di interessi?

 

UNA RICONOSCENZA DA 4 MILIONI DI EURO

 

Una storia di riconoscenza.

Guglielmo Ascione è un ex collega di AntonioDi Pietro che da magistrato archiviò due fascicoli pericolosi per Tonino. Anche lui, come l’ex pm di Montenero di Bisaccia, ha appeso la toga al chiodo.

Nel 1995 fu lui ad archiviare un esposto di Sergio Cusani che denunciava la falsificazione di alcune carte (fornite dal faccendiere Pierfrancesco Pacini Battaglia) su cui Di Pietro aveva costruito il processo Enimont. Cusani ebbe torto ma aveva ragione: un anno dopo una perizia avrebbe accertato che quei documenti erano contraffatti, ma ormai l’esposto era seppellito.

Fu sempre Ascione ad archiviare altre accuse compromettenti per Di Pietro, quelle del pentito Salvatore Maimone, il quale aveva sostenuto che un autoparco milanese gestito dalla mafia godeva delle coperture di magistrati tra cui proprio Tonino. Ed era ancora Ascione, sia pure indirettamente, a informare il collega che si stava preparando un’ispezione ministeriale su di lui: secondo una sentenza del 1997, l’ispettore Domenico De Biase riferiva ad Ascione, il quale ne accennava al giornalista Maurizio Losa, il quale si confidava con Di Pietro.

Due anni fa il giudice Guglielmo Ascione, diventato avvocato, era stato incaricato dalla società che gestisce l’autostrada Brescia-Padova di dirimere una faccenda molto delicata, che richiedeva doti speciali di mediazione con il ministero delle Infrastrutture. Il legale doveva fare in modo che la Serenissima ottenesse la proroga della concessione autostradale. La decisione spettava all’Unione europea e al ministero. La consulenza fu assegnata il 30 giugno 2006, quando Tonino si era insediato da poche settimane.

La vicenda fece scalpore per l’ammontare della parcella (quattro milioni di euro), ma soprattutto per la scelta di Ascione.

Solo conflitto di interessi?

 

DI PIETRO: UN AMICO VALE UN TESORO

 

Ai bei tempi di MANI PULITE Di Pietro si era fatto due grandi amici: i suoi ex inquisiti Antonio D'Adamo e Giancarlo Gorrini.

D'Adamo, proprietario della Edilgest, era un amico talmente intimo da prestargli il suo fugio per scappatelle, la garçonnière di via Agnello 5 a Milano, con entrata anche da via Santa Radegonda 8: quaranta metri quadri al sesto piano, all’interno di una torretta piazzata in mezzo a un terrazzone con vista sul Duomo. All’interno, una boiserie rivestita in legno, camera da letto, soggiornino e zona pranzo semicircolare.

Gorrini è il personaggio che «prestò» i famosi 100 milioni al nostro Tonino.

D’Adamo, che al pari di Gorrini gli prestò altri cento milioni, gli mise a disposizione anche una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto: questo dal 1989 e per almeno un anno e mezzo.

D’Adamo è quel personaggio che «prestò» a Di Pietro cento milioni, oltreché elargirgli vestiti alla boutique Tincati di corso Buenos Aires, un telefono, una Lancia Dedra e altri infiniti privilegi della D’Adamo card che staccava assegni anche per i relativi biglietti aerei Milano-Roma-Milano (una quindicina) acquistati all’agenzia Gulliver di via San Giovanni sul Muro.

Questo fa parte del pacchetto di sterminati favori (soldi, auto per sé e per la moglie, incarichi e consulenze per moglie e amici, impiego per il figlio, vestiario di lusso, telefono cellulare, biglietti aerei, ombrelli, agende, penne, stock di calzettoni al ginocchio) che il duo D’Adamo-Gorrini ebbe a favorirgli. Proprio grandi amici.

Nulla di penalmente rilevante, sentenziò incredibilmente la Procura di Brescia una decina di anni fa: comportamenti che tuttavia avrebbero senz’altro portato a delle sanzioni disciplinari se Di Pietro non si fosse dimesso da magistrato.

Solo conflitto di interessi?

 

DI PIETRO: UN TERREMOTO PROVVIDENZIALE

 

Di Pietro inizia la sua grande attività di immobiliarista con la casa di Curno dove l’ex magistrato risiede tuttora.

Succede nel 1984: in via Lungobrembo, zona Marigolda, Di Pietro aveva adocchiato un immobile diroccato: una volta risistemato, lui e la sua futura seconda moglie, Susanna Mazzoleni, avrebbero potuto viverci assieme. Fu lei a contattare il proprietario, Leone Zanchi, un contadino che di quel rudere non sapeva che farsene; ogni intervento diverso dalla cosiddetta «manutenzione straordinaria», infatti, gli era proibito dal piano regolatore. Accettò dunque di vendere il casolare per trentacinque milioni, e il 17 aprile 1985 Susanna Mazzoleni ereditò la concessione edilizia richiesta dallo Zanchi pochi giorni prima, come detto una «manutenzione straordinaria».

E qui succede l'imprevedibile. Nottetempo un TERREMOTO localizzato proprio sotto la cascina ne provoca il crollo.

«Del vecchio fabbricato», notarono due periti comunali, «è rimasto solo il muro a est, la restante parte non c’è più». Susanna Mazzoleni sarà quindi costretta a chiedere di ricostruire tutta la cascina come Zanchi non aveva potuto fare. La provvidenza, appunto.

Va da sé che l’ex proprietario andò fuori dalla grazia di Dio, e cominciò a piantar grane tirando in ballo anche Di Pietro. Ma, logicamente, non se ne fece nulla.

Solo conflitto di interessi?

 

DI PIETRO E L'EQUO CANONE

 

Come fece di Pietro ad avere un appartamento in centro di Milano a 100.000 lire al mese?

Ai tempi di MANI PULITE Di Pietro frequentava il bel mondo milanese ma si verifico una difficile situazione. Indagando sulle tangenti, rischiava di interrogare di giorno in tribunale gli amici che già frequentava la sera. 

Nell'inchiesta sull’Atm (Azienda trasporti milanesi) di cui presidente era il democristiano Maurizio Prada e vicepresidente il socialista Sergio Radaelli, tra le sigle di un libro mastro delle tangenti spiccavano in particolare «Riva», una sigla che collegava a Prada e Radaelli. Questi due facevano parte di un giro di frequentazioni ad ampio raggio nella "Milano da bere" (il sindaco Pillitteri, l’ex questore Improta, l’industriale Maggiorelli, il capo dei vigili Rea e moltissimi altri) che aveva fatto tappa anche nella casa di Curno dell’allora magistrato Di Pietro.

E qui successe un fatto strano che cambiò in positivo la disponibilità immobiliare di Di Pietro. Infatti, tre giorni dopo che l’impaziente Repubblica aveva esplicitato i nomi che tutti aspettavano (Prada e Radaelli) Di Pietro decise di stralciare le loro posizioni dalla sua inchiesta. La posizione di Radaelli, in particolare, sarà poi archiviata su richiesta di Di Pietro. Le responsabilità del cassiere socialista saranno appurate solo qualche anno dopo. Per farla breve: Di Pietro archiviò, ma Radaelli era colpevole.

E proprio in quei giorni, quando il gip non aveva ancora accolto l’archiviazione chiesta da Di Pietro per Radaelli, l’allora magistrato ebbe a disposizione un appartamento concesso a equo canone dal Fondo pensioni Cariplo: contratto intestato a Di Pietro Antonio, 65 metri quadri calpestabili (70 commerciali), 230 metri cubi a un canone annuo di 2.817.039, ossia 234.753 il mese (100mila di canone e 134mila per le spese di ristrutturazione pari a 20 milioni di lire). Questo in Via Andegari, dietro Piazza della Scala. Un sogno.

L’ex sindaco Paolo Pillitteri ha raccontato che Di Pietro si rivolse dapprima a lui, senza successo, ma che gli consigliò di chiedere a Radaelli che allora era consigliere della Cariplo in predicato di vicepresidenza.

L’assegnazione fu anomala a dir poco: non tanto perché venne ignorata ogni graduatoria d’attesa (nell'Italia dei favori è normale, anche se illecito) ma perché venne saltata di netto l’apposita commissione affittanze, che si limitò a ratificare una decisione calata dall’alto.

Solo conflitto di interessi?

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