agosto 2011 |
CAPITOLO
1 - LA CAMPAGNA ELETTORALE DELLA
PORCHETTA
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Prendete un
conduttore televisivo, trentacinque
anni, già una lunga esperienza in
giornali e tivù locali. Diventato
famoso per le sue trasmissioni
orgogliosamente nazional-popolari,
seguitissime dalle tanto corteggiate
“sciure Maria” di Lombardia e non
solo. Uno di quelli che, per dirla
in politichese, può eventualmente
contare su un discreto “bacino di
voti”, la sua faccia è nota, le
persone si fidano. Poi prendete
delle imminenti elezioni, con i
partiti alla disperata ricerca del
“volto nuovo”, magari proveniente
dalla “società civile”, in modo da
poter sbandierare una riverniciata
che sembri appena appena credibile.
Uniteci una buona dose di ambizione
del conduttore-giornalista, che
visti i trascorsi conosce i politici
per filo e per segno, in studio li
ha incontrati decine di volte. E c’è
chi tra una chiacchiera e l’altra
gliel’ha anche buttata lì, «ma
perché non ci provi anche tu?». Ci
provi a far cosa? «A fare politica.
Saresti perfetto». E allora lui ci
crede, comincia a fantasticare, «mi
darei da fare per cambiare questo e
quello». Nelle sue trasmissioni ha
spesso messo alla berlina vizi e
stravizi del Palazzo, e l’idea di
entrarci da “corsaro” lo alletta non
poco. E insomma, alla fine sì, si
butta. Entra a far parte della
Casta. Giusto così, per vedere
l’effetto che fa. E dunque, eccomi
qui: sono Roberto Poletti,
parlamentare pentito.
Ricordo il
periodo in cui riflettevo sulla mia
possibile “discesa in campo” (perché
tutti i candidati, all’inizio, si
sentono un po’ Berlusconi, o un po’
D’Alema, se si preferisce). Era
l’inizio del 2006: la legislatura
del Cavaliere era alla fine,
l’ascesa di Prodi pareva
inarrestabile, e in pochi davano
ascolto ai sondaggi di Silvio,
«guardate che il centrodestra ha
recuperato, li abbiamo ripresi,
siamo in testa!». In effetti, la mia
passata esperienza alla Padania mi
aveva appiccicato addosso
l’etichetta di leghista. Non che la
cosa mi offendesse, ma i rapporti
col Carroccio si erano raffreddati
nel tempo. E poi c’era questo
feeling con i Verdi, conoscevo bene
alcuni di loro, stima reciproca con
il capogruppo in Regione Lombardia,
si può dire che il segretario
nazionale Pecoraro Scanio fosse un
amico. «I Verdi? E perché no?».
Certo, mai mi ero occupato dei
problemi della foresta amazzonica,
né mi sentivo particolarmente
competente su effetto-serra e
dintorni. Tutt’altro. Ma nelle mie
trasmissioni avevo sempre spinto
sulla necessità di fare un po’ di
pulizia in Parlamento. Ecco:
“l’ecologia della politica” mi
sembrava uno slogan attuale,
vincente. Senza contare che, molto
meno idealmente e facendo due conti,
quello dei Verdi era il partito che
più degli altri mi garantiva la
possibilità di essere eletto. Sapevo
che uno dei candidati in Lombardia
avrebbe rinunciato allo scranno
romano per rimanere in Regione. E
dunque, la legge elettorale mi
avrebbe permesso di subentrare. Ma
sì, vada per i Verdi. E poi, una
volta dentro, potrei fare il cane
sciolto. Gli faccio vedere io, gli
faccio.
I colloqui
con i vertici del partito scivolano
via senza troppi problemi.
D’altronde, porto con me un bagaglio
mica male, visti gli ascolti
-record, per delle televisioni
locali- dei miei programmi. Sul mio
disinteresse per l’ambientalismo
militante, nessun problema: quando
puoi garantire qualche crocetta in
più sulle schede elettorali, un
accordo si trova. L’incontro
decisivo con Pecoraro Scanio avviene
al Jolly Hotel di Milano, gennaio
2006. «Visto che sei giornalista, ti
potresti occupare dell’informazione»
mi dice. «E poi ti piazziamo in una
commissione parlamentare di quelle
giuste». Diamo un’occhiata alle
liste: io sarei stato il numero 6
dei collegi Lombardia 1 e Lombardia
2. I primi tre in lista, Pecoraro
compreso, si sarebbero presentati in
tutta Italia, e dopo il voto
avrebbero scelto altre località di
elezione. Degli altri due che avevo
davanti, già si sapeva che uno,
Monguzzi, avrebbe rinunciato per
restare alla Regione Lombardia. E
valutando i sondaggi, era pressoché
sicuro che io e l’altro rimasto
saremmo stati eletti, uno nel
collegio Lombardia 1, l’altro nel
Lombardia 2. Dunque, affare fatto,
si parte. Obiettivo: la Camera dei
Deputati. In effetti, quello della
campagna elettorale è un periodo
faticoso. Controlla i manifesti,
prepara gli spot, vai al dibattito
televisivo. Anche Sgarbi mi
appoggia, allora io e la scrittrice
africana Aminata Fofana, anche lei
candidata, gli chiediamo un appello
elettorale. Lui dice che sì, si può
fare. Vado a casa sua a Roma con un
operatore, lui si è svegliato tardi,
è ancora in vestaglia semiaperta, e
comunque registriamo lo spot, ma
mandarlo in onda non si può: si vede
“tutto”. Intanto il noto manager
Lele Mora offre i “suoi” personaggi
al partito, ma decidiamo di
utilizzare solo il famoso
Costantino, lo accompagno a Roma e
facciamo un appello contro gli Ogm.
Alto livello.
Operazioni
d’immagine a parte, imposto la
campagna sulla difesa degli anziani
e sulla moralizzazione della vita
pubblica, i temi che avevano fatto
la mia fortuna in televisione, uno
dei miei slogan è “Aria pulita in
Parlamento”. Mi faccio tutti i
mercati rionali, il pubblico mi
riconosce e si divide. Qualcuno mi
rinfaccia di essermi venduto ai
comunisti, «da te non me
l’aspettavo», altri mi sostengono,
«sei una brava persona e ti voto».
In ogni caso, è forse l’unico
momento in cui ti sembra di avere un
contatto reale con gli elettori: li
incontri, ci parli. Ti illudi di
aver fatto la scelta giusta, sogni
un futuro da Martin Luther King, ti
immagini di arringare l’Aula
gremita, «...ho fatto un sogno...».
Ma la realtà è molto più prosaica, i
primi schiaffoni arrivano da quelli
che dovrebbero essere dalla tua
parte: i compagni di partito. Nel
mio caso, tal Fiorello Cortiana. In
sostanza, i vertici dei Verdi
avevano deciso di sacrificare la sua
candidatura – due legislature da
senatore, si era già fatto, e un
discreto numero di anni in Regione
Lombardia - per offrirla a me. Sul
suo blog telematico cominciano a
uscire commenti non proprio gentili
nei miei confronti, si ironizza sul
mio passato in Padania e,
soprattutto, sui miei programmi
televisivi, evidentemente non
abbastanza chic. Lo stesso Cortiana,
parlando di me al Corriere della
Sera e a Repubblica, se ne esce con
frasi tipo «un conto è fare tivù
popolare, un altro è darsi al
populismo, io vengo da un’altra
cultura politica, sono l’unico verde
pubblicato su Le Monde, giro tra la
Biennale di Venezia e i summit nel
Kerala», e ancora «lui va in onda
con la sciura Maria e fuori dalla
Lombardia non lo conosce nessuno».
A parte che
proprio in Lombardia ero candidato,
e dunque non mi sembrava così
squalificante essere conosciuto sul
territorio, mi infastidiva il
riferimento alla “sciura Maria”,
quasi fosse un demerito poter
contare sull’affetto della gente
semplice. Quindi rispondo, ribadendo
l’orgoglio per le mie trasmissioni
“tutte vecchiette e porchetta”.
Chiusa lì? Macché. Mi chiama
Pecoraro Scanio, arrabbiatissimo:
«Ma sei matto?» Io: «Matto? E
perché?» «Ma dài, quel riferimento
alla porchetta...». «La porchetta?».
«Sì, hai detto che sei orgoglioso
della tua tv alla porchetta». «E
allora?». «Come e allora? Qui ci
giochiamo i voti dei vegetariani, ti
rendi conto? Non dire più una cosa
del genere!». Da allora, niente più
porchetta. E comunque, dopo la
vittoria del centrosinistra del 10
aprile, ci saremmo trovati nella
sede della Federazione dei Verdi, a
Roma, per una chat post elettorale
di ringraziamento. E avremmo
festeggiato la vittoria di Prodi e
del centrosinistra, e dunque anche
nostra, a forza di cubetti di
mortadella. Ma lì i vegetariani non
vedevano. E poi, chissà, forse
quella mortadella era un segno
premonitore. Comunque, tenere bene a
mente: porchetta no, mortadella sì.
In realtà,
io risultavo essere il primo dei non
eletti. Ma i propositi di rinuncia
di Monguzzi non erano in
discussione, lui è uomo di parola.
Quindi mi organizzo e prendo casa a
Roma, in piazza Navona, me l’affitta
un collega giornalista. Monguzzi
vuole partecipare da deputato
all’elezione del Presidente della
Repubblica, poi si sarebbe fatto da
parte. E così succede: Napolitano
diventa Capo dello Stato, io divento
deputato. Il mio esordio in
Parlamento non è che me lo ricordi
perfettamente. È il 6 giugno 2006,
un martedì: mi sveglio emozionato,
resto tutto il giorno in uno stato
semi-onirico. Mi ero comprato un
vestito per l’occasione, duemila
euro spesi da Canali, volevo fare
bella figura. Arrivo in piazza
Montecitorio, varco il portone. Ed
entro in quello che mi sembra un
altro mondo. I grandi corridoi, i
soffitti a volta, i tappeti, ogni
poltrona che t’immagini essere un
pezzo di storia. Lo sfarzo. Vado
subito nell’enorme salone
Transatlantico, quello così famoso,
dove tutti s’incontrano nelle pause
delle sedute: i commessi e gli
impiegati che camminano velocemente,
i parlamentari che passeggiano, ecco
Bertinotti, ti giri e vedi D’Alema.
Faccio capannello con gli altri neo
eletti, scherzo con un altro
novello, Maurizio Bernardo, lui è di
Forza Italia, ci chiamiamo
“onorevole” per sentire come suona,
«Allora, onorevole Bernardo…», «Eh,
caro onorevole Poletti…», poi
scoppiamo a ridere. Percorriamo il
“corridoio dei Presidenti”, una
galleria in cui sono affissi i
ritratti di tutti i presidenti della
Camera, e ci scopriamo un po’
intimoriti, sono persone che hanno
fatto l’Italia. Poi vediamo il
quadro con la Pivetti e ci
tranquillizziamo.
Finalmente
entro in aula, cerco il mio posto,
eccolo, mi siedo. Sì, sono commosso,
altro che storie. C’è un’
“informativa urgente del governo sul
grave attentato subito da una
pattuglia del contingente militare
italiano a Nassiriya”. E io sono
qui. A un certo punto Bertinotti,
che della Camera è presidente,
declama che «il deputato Carlo
Monguzzi, eletto consigliere
regionale, ha comunicato, con
lettera inviata alla Presidenza, di
voler rassegnare le dimissioni dalla
carica di deputato». Ecco, tocca a
me. E infatti si passa alla
proclamazione dei deputati
subentranti. Al posto di Bertinotti
c’è ora il vicepresidente Leoni, ma
va bene lo stesso. È lui che
pronuncia il mio nome: «...e
proclama quindi deputati Mauro
Betta, Giovanni Cuperlo, Stefano
Pedica, Roberto Poletti...». Adesso
è vero, sono ufficialmente
onorevole, l’Onorevole Roberto
Poletti: vi rendete conto? Trema
Parlamento, che adesso ti aggiusto
io!
Ma la
giornata non è finita. Conclusa la
seduta in Aula, un altro onorevole
mi prende per un braccio e mi
accompagna al piano di sopra. Lì si
trova la sala in cui si riunisce la
“Commissione cultura, scienza e
istruzione” e io, aderente al gruppo
parlamentare dei Verdi, ne faccio
parte, senza che nessuno mi abbia
chiesto se mi sta bene o meno, ma
questo è un dettaglio. Commissione
cultura, scienza e istruzione: e
dici poco? Come inizio non è mica
male. Siamo in 46, c’è da eleggere
il presidente. «Ricordati:
Folena...». Come? «Folena, si vota
Folena, quello di Rifondazione». In
effetti, mi avevano già consegnato
un foglio con i nomi di tutti quelli
che andavano votati, presidenti e
vicepresidenti e segretari di
Commissione, il mio primo compito è
dunque quello di copiare
l’indicazione ricevuta. Vabbé, sono
appena entrato, mica posso
pretendere di fare subito di testa
mia. E dunque, che Folena sia. Come
avevo detto? Che il Parlamento
adesso lo aggiusto io? Sì, magari da
domani.
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CAPITOLO
2 - LE TESSERINE DEI MIRACOLI
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Guardo e riguardo il tesserino e mi
sento un re. L’ho appena ritirato:
copertina rigida, bordeaux, con
stampigliata la scritta “Camera dei
deputati”, somiglia un po’ a quello
dei giornalisti, l’altra casta cui
appartengo. Certo, il fotografo
ufficiale di Montecitorio non è che
abbia fatto un capolavoro, ma in
effetti sono io che non vengo
granché bene, e poi non mi
riconosco, mi sembra quasi d’essere
mascherato. Vabbé, chissenefrega, mi
consolo con la medaglietta d’oro da
deputato, c’è su scritto il mio
nome, mi dicono che la cita anche
Pirandello, controllo ed è vero,
“Brancolino brancicava con le dita
irrequiete la medaglietta da
deputato appesa alla catena
dell’orologio...”. Io la tengo nel
portafogli. Passeggio per il
Transatlantico ostentando
nonchalance, anche se ancora non mi
sono abituato. Vedo un drappello di
cronisti parlamentari che taccuini
alla mano accerchiano non so chi,
passo oltre. Poi noto tre colleghi
deputati che sembra stiano giocando
a figurine, uno lo conosco, mi
avvicino.
«E questa ce l’hai?».
«Sì, certo».
«E quest’altra?».
«Ma no, non vale più, l’hanno
abolita».
«Eh, ma io la uso
ancora...».
Guardo meglio, e non
sono figurine, ma tessere. Tesserine
tipo le carte di credito, necessarie
per godere di questo beneficio o
quell’esenzione. Ascolto, cerco di
capire, mi faccio spiegare. C’è poco
da fare il moralista: questa è la
dotazione dell’onorevole, “alla fine
sono strumenti di lavoro”. Mi
vengono in mente le mie trasmissioni
contro i privilegi dei politici, ma
affronto la mia coscienza con
decisione, “oh, è un mio diritto, io
sono qui per fare l’interesse della
gente, è giusto che possa disporre
di queste cose, e poi in questo modo
non siamo ricattabili, giusto?”. E
insomma, passa neanche un minuto e
la coscienza è già diventata
complice. Sentirmi in colpa? Giusto
un filo, ma mi hanno detto che poi
passa. Comunque, comincio il giro.
Prima tessera da ritirare è quella
con cui si vota in Aula.
Fondamentale, dunque. Ma mica solo
per questo. Serve anche per mangiare
e bere al ristorante di Montecitorio
o al più informale self-service
oppure alla buvette, il mitico
bistrot extra-lusso dai prezzi che
nemmeno in una trattoria di ultima.
Il conto te lo scalano dallo
stipendio, ma non si rischia certo
di andare in rovina: grazie allo
speciale trattamento riservato a noi
deputati, con 10 euro si mangia
eccome, anche se il costo reale per
le casse statali è di circa 90 euro
a pranzo.
Che vuoi che sia,
d’altronde sono un Verde:
l’alimentazione prima di tutto, i
soldi vengono dopo. Ma attenzione a
non dimenticare la card da qualche
parte, che poi qualcuno dei colleghi
te la usa per mangiare e bere a
sbafo, salvo poi scusarsi - “ah, ma
allora questa è tua?” - quando lo
scopri. Esagerazione? Sarà, ma a me
è capitato. La tesserina in
questione serve anche per l’aereo
gratis. Basta esibirla in qualunque
biglietteria d’aeroporto per fissare
il volo senza sborsare un centesimo,
altrimenti vai direttamente
all’agenzia di viaggi interna al
Parlamento, che è anche più comodo.
A proposito di aeroporti, la Sea,
società che gestisce quelli milanesi
di Linate e Malpensa, provvede
direttamente a inviarmi la tessera
che permette di parcheggiare l’auto
negli spazi riservati, “parcheggio
vip A di Linate e parcheggio Vip dei
terminal 1 e 2 di Malpensa”.
Naturalmente anche il treno è gratis
a vita, ma lì basta il documento da
parlamentare. Meglio, così non
spreco un altro spazio nel
portafogli. E comunque, sulle
onorevoli trasferte ci torneremo. E
l’autostrada? Per quella devo farmi
dare un altro documento, il
tesserino Aiscat: arrivi al casello,
lo sventoli in faccia all’addetto –
o lo inserisci nella fessura
apposita tipo bancomat,che è anche
meno imbarazzante - e d’incanto la
sbarra si alza. Volendo, puoi
richiedere anche un Telepass, quel
piccolo marchingegno che permette di
oltrepassare le barriere
autostradali senza nemmeno fermarsi:
il bello è che puoi installarlo
sull’automobile che vuoi, anche
quella della nonna. In realtà, è un
servizio a pagamento ma poi te lo
rimborsano. A me non serve. Per
quanto riguarda la circolazione in
città - e insomma, questo traffico è
diventato insopportabile, non
vorrete mica che il nostro lavoro di
parlamentari sia intralciato da file
interminabili, no? -, per circolare
in città, dicevo, possiamo
naturalmente utilizzare le corsie
preferenziali, a Roma e a Milano.
Nella Capitale c’è anche stata un
po’ di polemica, perché i permessi
per entrare in centro, nella Zona a
Traffico Limitato (la ZTL), sono
stati ridotti. E c’è chi si è
arrabbiato.
L’onorevole Riccardo
Pedrizzi, per esempio, che ha
inviato a tutti i parlamentari una
lettera su carta intestata “Camera
dei deputati - Commissione finanze”,
in cui s’invitava a sottoscrivere
una protesta poiché «le nuove
disposizioni penalizzano oltremisura
tutti i parlamentari che vedono
condizionati i loro movimenti». E
perché? Perché un tempo ciascun
deputato o senatore poteva estendere
il proprio permesso ad altre due
targhe, cosa adesso non più
possibile. «È evidente che non
vogliamo sottrarci all’obbligo di
introdurre nel centro storico non
più di una singola auto per volta,
ma solo avere la possibilità di
utilizzare a seconda delle esigenze
l’auto di cui si dispone». Ben
detto. «E la tessera Coni?». La
tessera Coni? E a che cosa mi serve?
«Per andare gratis alla partita». A
parte che il calcio non m’interessa,
ma non era stato cancellato, quel
meccanismo? «Ma no, che con quella
allo stadio ci entri sempre. E anche
alle altre manifestazioni sportive».
E allora va bene: faccio richiesta
della tessera Coni, che subito mi
arriva. C’è da dire che san
Montecitorio si premura di
accompagnarci dentro la vita
parlamentare, nel cuore dello Stato,
evitandoci qualunque preoccupazione.
Privilegi? Ma no, è per poterci
concentrare solo sul miglioramento
della vita dei cittadini. Quella
rottura di scatole che è la
dichiarazione dei redditi, per
esempio: niente commercialista né
conseguente parcella. “Caro collega
– mi scrivono i deputati questori –
abbiamo il piacere di informarti che
anche quest’anno è stato organizzato
un servizio di assistenza fiscale”.
In teoria trattasi di “consulenza”,
in pratica il modulo me lo compilano
loro. E devo anche sbrigarmi, perché
fra pochi giorni scade il termine.
Metti poi che non ti senti bene, e
scusate se è poco onorevole, ma qui
mi tocco. In ogni caso, nessun
problema: c’è la Card Medital, che
garantisce un servizio medico
d’urgenza “24 ore su 24, 365 giorni
l’anno, ovunque si trovi nel
territorio in cui è operativa la
struttura Medital”, basta chiamare
il numero verde 800.65.25.85.
Struttura privata, che fa parte
della Europ Assistance Italia spa.
Dunque paga lo Stato, cioè i
cittadini, e ne usufruiamo noi
deputati (speriamo il meno
possibile).
Ma un
parlamentare moderno, un politico al
passo coi tempi, dove va se non è
capace di usare il computer? Pronti:
ecco il corso d’informatica,
gratuito. E le lingue? Per quelle ci
sono le lezioni private e
individuali. Con insegnante
madrelingua, a qualunque orario e in
qualunque luogo, anche a casa. Manco
a dirlo, paga lo Stato. Si può
scegliere l’idioma che si
preferisce: inglese, francese,
tedesco, ma anche russo e
giapponese. Sì, giapponese. È quello
che ho scelto io, già sapevo che ci
sarei andato in missione
parlamentare. E poi, l’Oriente è
sempre stato la mia passione.
Dunque, contatto la bravissima Asako
Ishihara, che m’insegna i rudimenti
per comprendere che cosa si dice a
Tokyo e dintorni. In realtà un anno
e mezzo dopo la mia elezione, viste
le inchieste giornalistiche e
l’incazzatura montante dell’opinione
pubblica, viene recapitata una
circolare dall’ufficio di
presidenza. In sostanza, si dice che
“occorre dare un segno, d’ora in poi
almeno i corsi di lingua ce li
dobbiamo pagare”. Quanto? Otto euro
all’ora, quando ai comuni mortali
una lezione individuale costa almeno
il quadruplo. Comunque, per incanto,
i parlamentari aspiranti multilingue
quasi scompaiono. Perché poliglotti
va bene, ma soltanto se è gratis.
Un’altra cosa che subito mi dà la
misura del nuovo mondo in cui sono
entrato è quel sottobosco di negozi
e aziende, romane ma non solo, che
s’incuneano nella posta elettronica
per offrire
sconti e
facilitazioni e promozioni. Ho
appena attivato la mia nuova e-mail
da deputato che cominciano ad
arrivare avvisi a decine. C’è la
sartoria che si offre di
confezionarti l’abito su misura con
lo sconto del 40 per cento, l’ottico
che su occhiali da vista e lenti a
contatto ha pensato per il “gent.mo
onorevole” a una riduzione di prezzo
del 30 per cento, l’Associazione
parlamentare amici delle nuove
tecnologie presieduta dal sempre
impegnatissimo Franco Grillini che
“appronta una convenzione con
l’azienda leader nella produzione di
palmari e cellulari” e garantisce
uno sconto del 10 per cento, la casa
automobilistica straniera che
“comunica di poter praticare
particolari condizioni per
l’acquisto di autoveicoli nuovi
presso la rete dei concessionari”.
Per i libri, 20 per cento in meno su
ogni titolo, fino al 30 per cento
sui tomi universitari, che così
l’onorevole spende meno anche per
far studiare il figliolo.
Potrei continuare per pagine e
pagine, ma ci siamo capiti. Telefono
a un amico, gli racconto i miei
primi giorni da deputato. «Eh,
Roberto - mi prende in giro -,
vedrai che a forza di star seduto
alla Camera e con tutti ’sti
benefit, ti verrà una pancia grande
così». Ma va, rispondo, io ci tengo,
alla forma fisica. A parte che, per
ritemprarsi nelle pause di quello
che al di là di tutto prevedo essere
un lavoro comunque duro e frenetico,
c’è anche una sauna, proprio sotto
l’Aula, neanche tanto grande ma ben
attrezzata. E poi ci sono le mille
attività organizzate dal Circolo
Montecitorio, quello di via Campi
Sportivi, poco lontano dal Foro
Italico. «È un po’ il nostro
dopolavoro - spiego al mio amico -
ma non immaginarti un circolo da
ferrovieri. È un club elegante, roba
di lusso». C’è il campo da calcetto,
quello da golf, palestra, piscina,
basket, tennis. Poi ristorante e
club-house. Certo, l’ambiente
può
apparire un po’ retrò: oltre ai
deputati in carica, per cui
l’iscrizione è gratis, è
frequentatissimo
dagli ex, che
pagano una quota di ben 24 euro al
mese. A volte qualcuno esagera, come
quel compleanno di non so chi, con
gli amici - «esterni
all’amministrazione di
Montecitorio», si scusa per lettera
il festeggiato - che gli fanno
trovare una lap-dancer, una di
quelle ballerine che in genere si
esibiscono dimenandosi intorno a un
palo, e questa allieta i cento
invitati con uno strip da mozzare il
fiato. Ma queste sono goliardate. Il
Circolo, in realtà, è necessario al
benessere psicofisico di noi
deputati, e anche dei senatori. E le
iniziative più interessanti ci
vengono comunicate con circolari
indirizzate proprio agli “Ill.mi
Senatori e Deputati”. Come il corso
di Pilates, sistema di allenamento
che migliora la fluidità dei
movimenti e anche il “coordinamento
fisico e mentale”, che quando c’è da
votare altroché se è importante. E
questa cos’è? Ah sì, questa è
interessante. «Caro collega - mi
scrive l’onorevole Pierluigi Mantini
- anche in vista dei Campionati
Europei Parlamentari di Tennis, che
si terranno in Romania, è opportuno
riprendere un programma di incontri
e di allenamenti, per i quali sono
disponibili i maestri presso il
Circolo Montecitorio. Sembra anche
utile programmare un torneo che
consenta di valutare i nuovi
parlamentari (ehi, sta parlando di
me!...) al fine di allestire al
meglio le squadre. Per discutere su
questi temi, si terrà una riunione
presso gli impianti sportivi del
Circolo, a cui abbiamo il piacere di
invitarTi. Seguirà buffet».
Naturalmente.
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CAPITOLO 3 - UFFICI SÌ, LAVORATORI
NO
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Questa
storia degli uffici dei deputati è
davvero curiosa. Si trovano a
Palazzo Marini, tre minuti a piedi
da Montecitorio. Per mantenerli, lo
Stato paga circa 30 milioni di euro
all’anno soltanto di affitto. Una
decina di anni fa, il già grande
complesso è stato addirittura
ampliato, adesso è arrivato a 60mila
metri quadrati. E ci credo: il fatto
è che i parlamentari non confermati
non ne vogliono sapere, di mollare
le stanze, dunque passano mesi prima
che i nuovi eletti possano avere a
disposizione lo spazio. Così succede
anche a me, Poletti Roberto,
onorevole di fresca nomina: «E il
mio ufficio?» chiedo. «Un po’ di
pazienza, adesso salta fuori». Poi
scopro che l’ex titolare deve ancora
liberarlo, e nessuno si può
permettere di impacchettargli le
scartoffie: lo farà lui, quando avrà
voglia e tempo. Gli uffici sono
assegnati dai gruppi parlamentari.
Ed è un litigio continuo: riunioni
su riunioni, trattative estenuanti
che sembra la Finanziaria, «a me ne
serve uno un po’ più grande», «non
datemi quello vicino ai bagni, per
favore» e via dicendo. Problemi e
lamentele finiscono tutte sul
groppone di Giampiero Spagnoli,
funzionario storico del gruppo dei
Verdi e anche di quello misto,
bresciano cui Roma non ha rubato
l’accento né la voglia di lavorare:
è lui che tranquillizza, media,
propone, risolve che neanche Gianni
Letta. In ogni caso, l’ufficio
assegnato me lo liberano dopo
l’estate, a tre mesi dall’elezione.
All’inizio, mio vicino di stanza è
Massimo Fundarò, ma capisco che la
situazione è ancora in evoluzione.
L’onorevole Arnold Cassola, infatti,
non la manda giù: dice che il suo,
di ufficio, proprio non va bene,
pare sia troppo rumoroso,
soprattutto a causa di una caldaia
sistemata nei paraggi. E insomma,
Cassola si mette a far la posta agli
altri, controlla le frequenze,
cronometra i tempi, conclude che
Fundarò il suo lo usa poco e invece
per lui sarebbe perfetto. Tra
l’altro Cassola è stato eletto in
una circoscrizione estera, e questi
hanno un po’ la fissa di essere
discriminati dai deputati
“indigeni”, «ma almeno a noi le
preferenze ce le hanno date votando
il nostro nome, mica come voi». Alla
fine, più che altro per sfinimento
generale, la spunta. E trasloca
nell’ufficio accanto al mio.
E allora,
parliamo del mio nuovo stanzone da
deputato: non è niente male. È al
terzo piano, stanza numero 321. Due
scrivanie, due computer, fax e
telefono e stampante, una
televisione, un frigorifero. E poi
tre armadioni, due sedie-poltroncine
di quelle comode, una finestra che
dà sul cortile interno. Di
cancelleria ce n’è a strafottere:
penne, matite, colle stick, forbici,
fermagli e graffette e graffettine
da graffettare il mondo,
sbianchettatori, evidenziatori,
persino le gomme blu, quelle per
cancellare la penna (e mi chiedo: ma
chi è che oggi cancella le cose
scritte a penna con la gomma blu,
che se non stai attento ti buca
anche il foglio? Non lo fanno più
nemmeno alle elementari). E poi
carta, un mare di carta, fogli,
buste grandi medie e piccole, bloc
notes, cartelline: d’istinto, mi
vengono in mente le proteste della
Polizia, che più volte si è
lamentata perché non ne hanno
nemmeno per fotocopiare i verbali, o
le mamme costrette a portare le
risme di carta alla scuola del
figlio. Qui invece siamo sommersi,
alla faccia dei boschi rasi al
suolo, e meno male che siamo i
Verdi. Peraltro, scoprirò poi che la
fornitura di cancelleria viene
rinnovata ogni tre mesi: ti arrivano
gli scatoloni pieni di questa roba e
non sai dove metterla, perché del
resto ne hai usato un decimo se va
bene. E gli scatoloni con i ricambi
te li spediscono a qualunque
indirizzo, anche a casa. Oppure, se
hai un’urgenza, vai direttamente al
magazzino, nei sotterranei di
Montecitorio. E fai scorta.
Il punto
è che questi uffici non li usa
nessuno. O si è in Aula, oppure in
Commissione, magari in trasferta di
lavoro, altre volte semplicemente a
casa. Senza contare che c’è
l’ufficio del gruppo parlamentare,
che sbriga pratiche a richiesta.
Oppure quello del partito nazionale,
che volendo svolge le stesse
mansioni. O l’altro del partito
regionale, infine il partito
cittadino. È così, la politica
italiana è tutta un doppione del
doppione del doppione. Risultato: ti
aggiri per gli eleganti piani di
Palazzo Marini, percorri i corridoi
arredati con tappeti e quadri e
piante, e subito sei immerso nel
paradosso di un dedalo di uffici
senza alcuna traccia di lavoratori.
Di deputati ne vedi uno ogni tanto,
e in genere perché lì ha dato
appuntamento all’insegnante di
lingua o deve ritirare qualche fax o
magari schiacciare un pisolino. I
commessi fanno capannello attorno
alle scrivanie, scattano in piedi e
si danno un contegno quando passa
qualcuno, il più delle volte sono
costretti a ripiegare sul sudoku. E
non si dica che sono io,
scansafatiche, a essere allergico
alla onorevole scrivania gentilmente
messa a disposizione dallo Stato: in
questo senso, basta citare tra gli
altri un ordine del giorno
presentato dalla Rosa nel Pugno, che
sottolinea come “ogni deputato
dispone di un ufficio ubicato a
Palazzo Marini, ma è praticamente
impossibile il suo utilizzo durante
le giornate di lavoro parlamentare,
e per tali uffici, di norma
scarsamente utilizzati, la Camera
sostiene un costo esorbitante”.
Appunto, è quello che dico anch’io.
Per di più, una gentile circolare
interna ha il piacere di informarmi
che, “per consertirti di svolgere
con il supporto di adeguati
strumenti tecnologici il mandato
elettivo”, lo Stato è pronto a
coprire una spesa “per l’acquisto di
strumentazioni e materiali
informatici inerenti la dotazione di
una postazione di lavoro” di 3.000
euro. In sostanza, ci regalano il
computer portatile più costoso che
ci sia. Poi si sussurra che
qualcuno, in quella cifra, riesca a
farci stare anche il lettore Dvd o
la lavatrice, magari strizzando
l’occhio al negoziante mentre
compila la ricevuta. Ma questa è
certamente un’ignobile insinuazione.
Tra le
“dotazioni da ufficio” a
disposizione dei deputati c’è poi il
collaboratore personale, meglio noto
come “portaborse”, termine che non
mi piace perché offensivo nei
confronti di persone spesso
sfruttate, pagate in nero, e magari
poi sono loro che redigono i
comunicati “contro il precariato”
poi diffusi da coloro che si
presentano come paladini dei
lavoratori senza contratto. Non che
io voglia fare il moralista: infatti
ne assoldo uno (assumo, in questo
caso, è una parola grossa),
bravissimo, uno dei tanti studenti
che si propongono per arrotondare.
Ma mi accorgo che davvero posso
farne a meno, e dopo cinque mesi
interrompo il rapporto.
Interrogativo: faccio bene perché
smetto di uniformarmi a una prassi
vergognosa, o sono uno stronzo
perché lascio a casa lo studente?
Non sono riuscito a rispondermi. Tra
l’altro, dopo che la trasmissione Le
Iene fa esplodere lo scandalo e
tutti fanno gli gnorri, «chi, io?
chi, lui?», e Bertinotti tuona,
«questi vanno messi in regola!»,
ecco che subito arriva la
segnalazioncina, con il solerte
onorevole Evangelisti, dell’Italia
dei Valori, che gira a tutti i
deputati e senatori “la
comunicazione indirizzatami dallo
Studio Interlandi che considero in
grado di proporre una consulenza
professionale adeguata ad affrontare
le problematiche inerenti la
regolarizzazione del rapporto di
lavoro tra i parlamentari ed i
propri collaboratori”. Un bel grazie
a Evangelisti dai parlamentari e
dallo Studio Interlandi.
Dimenticavo: un altro gadget
essenziale per il duro lavoro
d’ufficio dell’onorevole è il timbro
autoinchiostrante. Io non lo sapevo,
poi un giorno vedo due deputati che
scherzano, lasciano il marchio
dappertutto, «guarda il mio», «ma
va, io ci ho messo pure capogruppo»,
sembrano ragazzini. Incuriosito,
m’informo. Mi viene spiegato che va
richiesto «giù al magazzino» e te lo
fanno avere. Ora, non è che la spesa
per i timbri dei deputati sia
determinante per incrinare
ulteriormente il malmesso bilancio
statale, ma a che cosa serve? Forse
per evitarci anche la fatica di
firmare? Dice: ma allora tu ci hai
rinunciato. Io? E perché? Chi sono,
il più sfigato? E allora, vai col
timbro: “On. Roberto Poletti”. E lo
piazzo lì, sulla scrivania. L’avrò
usato due volte. A proposito di
timbri, alla Camera c’è anche un
ufficio postale, si trova vicino
all’Aula. E come funzionano bene le
Poste, per noi parlamentari:
impiegati gentilissimi, quel
cartello con scritto “gli onorevoli
deputati hanno la priorità”, chissà
mai che qualche dipendente si metta
in testa di farci fare un minuto di
fila. Ogni deputato ha la sua
casella, ti mandano un avviso, “c’è
posta per lei”, tu vai e ritiri. Se
devi inviare a te stesso lettere o
plichi o raccomandate fuori sede,
francobolli e tasse varie non si
pagano. E a Natale, sono gratis
anche i biglietti d’auguri, con il
simbolo della Camera dei deputati e
un’illustrazione d’epoca: “Caro
collega, abbiamo il piacere di
comunicarti che per le prossime
festività natalizie potrai, come di
consueto, richiedere la dotazione
annuale a te spettante di n. 100
biglietti medioevalis a colori e n.
100 biglietti medioevalis color
seppia”. Scopro poi che nel caso non
mi piacessero, ho a disposizione 800
euro da spendere entro l’anno per
farmi stampare dalla tipografia
interna qualunque cosa voglio.
Mica
finisce qui: per Palazzo Marini,
quello dove si trovano gli uffici,
c’è un servizio postale specifico.
Nel senso che se per esempio devi
ritirare le fondamentali “agende
della Camera dei deputati” e ti
tocca andare fino a Palazzo Valdina,
che si trova a una distanza di metri
seicento circa, basta segnalare il
problema, e l’agenda la va a
prendere e te la porta l’incaricato
della società privata che gestisce
il servizio. «Ma dai, per
un’agenda?». Eh no, perché - come ci
comunica la consueta circolare - “la
dotazione [ma quante dotazioni
abbiamo?] consiste in un’agenda da
tavolo personalizzata, un’agendina
semestrale in pelle personalizzata e
due agendine in pelle”. Cioè, di
agende ce ne danno quattro. Quattro
a testa, che per 630 deputati fanno
2.520 agende. Poi uno dice che i
politici hanno perso il contatto con
la realtà: è che noi, con i problemi
che fanno imbestialire i normali
cittadini, non ci scontriamo mai. La
realtà ce la siamo dimenticata.
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CAPITOLO 4 - STRAPAGATI PER
CHIACCHIERARE
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La sala di
Commissione è ai piani alti, per
raggiungerla devi salire una
scalinata monumentale. Per farla
semplice, le commissioni
parlamentari sono delle specie di
mini parlamentini, dunque composte
da rappresentanti di tutti i partiti
proporzionalmente alla loro presenza
in Parlamento. Le cosiddette
“permanenti”, 14 in tutto, sono
incaricate di discutere di un
determinato argomento o esaminare i
progetti di legge, per metterli a
punto e poi eventualmente sottoporli
al voto dell’Aula. Poi ci sono le
“bicamerali”, che raggruppano
esponenti di Camera e Senato, e le
Commissioni d’inchiesta, che
approfondiscono vicende “di pubblico
interesse” e sono investite anche di
poteri giudiziari, in genere
invocate una volta ogni due giorni
da una parte politica per dare
addosso all’altra. Fine della
lezioncina. Inciso: uno può anche
essere membro di più Commissioni, e
neanche tanto raramente succede che
si riuniscano contemporaneamente,
così che da qualche parte è per
forza assente. Secondo e ultimo
inciso: ogni presidente di
Commissione ha a disposizione un
altro ufficio e relativo staff,
oltre a quello cui ha diritto in
qualità di deputato, e il suo
stipendio è maggiorato. Misteri
dell’organizzazione parlamentare.
Una cosa strana delle Commissioni è
che tu arrivi nella sala e
chiacchieri normalmente con gli
altri componenti, così, parli del
più e del meno, poi a un certo punto
comincia la riunione e di colpo
cambia tutto, «adesso la parola al
presidente Folena», e lui «grazie,
caro vicesegretario», e comincia a
parlare, e tutti si danno del lei. E
quando siamo seduti intorno al
tavolone e hai bisogno di passare un
foglio a un altro deputato, non è
che ti sporgi o ti alzi e glielo
dai: no, chiami il commesso, lui
arriva, gli consegni il documento,
quello fa tre metri e lo porta
all’altro. Ora, magari adesso la sto
mettendo giù un po’ caricaturale, ma
in effetti è davvero così: nei
lavori parlamentari, la formalità
burocratica viene spesso esibita nei
momenti più inutili, e dimenticata
quando invece potrebbe aver senso.
C’è da dire che tutto questo
cerimoniale nasce anche
dall’esigenza di verbalizzare le
riunioni, pensa che casino per il
trascrittore se tutti si parlassero
uno sopra l’altro. Resta il fatto
che avrà anche un senso, ma la prima
volta fa uno strano effetto, quasi
teatrale. Pare una commedia. «... e
adesso la parola al capogruppo dei
Verdi Poletti...». E infatti scopro
che sono capogruppo, pensa te. Non
lo sapevo, giuro, e quasi mi sembra
d’esser stato promosso, «evvài, che
sono già capo». Il fatto è che, come
ho già detto, le commissioni sono
parlamentini, e io sono l’unico
rappresentante dei Verdi, e quindi
in quanto tale sono capogruppo.
“Capogruppo dei Verdi in Commissione
cultura, istruzione e ricerca”: mi
sono firmato così, quando ho inviato
la lettera che mi ha pubblicato il
Corriere, proprio vicino alla
rubrica di Sergio Romano. E se
fossimo stati due, i Verdi in
Commissione, l’altro sarebbe stato
vicecapogruppo (oppure capo lui e
vicecapo io, a seconda). Perché in
Parlamento ognuno è capo o vicecapo
o presidente o vicepresidente di
qualcosa: una commissione, un gruppo
parlamentare, un’associazione.
Tutti. In realtà, non conti nulla,
ma questo sul biglietto da visita
non si scrive.
E comunque,
ripeto, io sono in “Commissione
cultura, scienza e istruzione”.
Cultura. Scienza. E istruzione.
Argomento più importante e sentito
delle mie prime riunioni: Calciopoli.
Cioè, va bene tutto, ma che cosa
c’entrano la scuola e la cultura e
la scienza con Calciopoli? E sono
sempre piene, queste riunioni,
durano ore. D’altronde, la vicenda è
sulle prime pagine di tutti i
giornali, c’è modo di essere citati
in qualche articolo. Il nostro
gruppo d’ascolto viene pomposamente
chiamato “Indagine conoscitiva sulle
recenti vicende relative al calcio
professionistico con particolare
riferimento al sistema delle regole
e dei controlli”. Le audizioni si
susseguono: il presidente del Coni,
il rappresentante della Consob,
nientepopodimeno che Francesco
Saverio Borrelli, il presidente di
Mediaset Confalonieri, i
rappresentanti dei consumatori e
quelli delle tv locali, l’onorevole
Josè Luis Arnaut “in qualità di
esperto del settore del calcio e
dello sport in generale” (?). Ognuno
chiede di sentire questo e quello,
il ministro dello Sport Melandri
viene a riferire. Ma davvero c’è chi
pensa che le riunioni in Commissione
cultura possano servire alla già
strampalata inchiesta su Calciopoli?
Ma poi perché discutiamo a
Montecitorio di Calciopoli? Per
quale motivo? E in realtà, ne parlo
così solo perché a me non interessa
il calcio, nel senso che chissà
quante volte ho invece partecipato
con più entusiasmo ad altre
discussioni su argomenti che magari
m’interessavano, ma ben sapendo che
non avrebbero portato a nulla di
concreto. Non che le riunioni di
Commissione siano sempre così.
Quando i progetti di legge toccano
veri interessi o questioni tecniche,
allora si fanno i conti e si
programma e ci si scontra e cose
serie, insomma. Ma ho come
l’impressione che troppe volte i
nostri siano invece pseudo
approfondimenti del tutto inutili,
nel senso che sono ininfluenti, e in
fondo lo sappiamo anche noi, che
sono ininfluenti. In questi casi, mi
vien da dire che noi, per lavoro...
chiacchieriamo. Nel senso che ci
troviamo, parliamo e magari
litighiamo su argomenti che più o
meno c’interessano, e alla fine
resta nulla. E non vorrei sembrare
troppo sarcastico, perché si tratta
anche di discussioni serie,
documentate, interessanti davvero.
Ci sono deputati che ci credono
sinceramente, spaccano il capello in
venti, presentano dossier alti così.
Ma comunque, sappiamo che non
avranno alcun riflesso o quasi. Come
dire: sono delle gran pippe.
Compito fondamentale dei componenti
di Commissione resta comunque quello
di fornire pareri sui vari progetti
di legge. Prima considerazione: a
noi peones, come dobbiamo votare
sulle questioni un minimo
significative ce lo dice il partito,
il segretario, che della cosa ha già
discusso in altra sede, con gli
altri pezzi grossi. Ma il nostro
“parere” - favorevole o contrario -
lo dobbiamo comunque motivare, e per
iscritto. Lo schema è più o meno
sempre lo stesso: di tuo, ci metti
la frase di circostanza, “dichiaro
voto favorevole” se sei nel
centrosinistra, oppure “dichiaro
voto contrario” se sei nel
centrodestra. Poi c’è da corredare
il tutto con riferimenti normativi e
rimandi a leggi e regolamenti. E
allora cosa fai? Siccome sai che il
tal giorno si voterà sulla tal
proposta, tu vai all’ufficio della
Commissione stessa, o a quello del
gruppo parlamentare, spieghi la
questione e fai fare tutto a loro,
che poi ti riconsegnano il plico. A
quel punto, non ti resta che
cambiare una virgola di qui,
inserire un inciso di là, e al
momento della chiamata consegni. Un
po’ come i vecchi compiti in classe,
con la differenza che qui è
consigliabile copiare. Riassumendo:
come votare lo decide il partito, il
resto se lo vedono gli uffici. A te
non resta che alzare la mano e
passare le carte. Datemi pure del
disfattista, ma dopo un po’ non ci
sono più andato. Perché è proprio la
consapevolezza della tua completa
inutilità, che ti distrugge. Hai la
sensazione di non poter fare nulla o
quasi, sei un dito che
all’occorrenza deve premere il
bottone prestabilito, e se non ci
sei fa lo stesso, tanto il bottone
per te lo schiaccia qualcun altro. E
non è che m’invento, prendete lo
stimatissimo e sempre impeccabile
Antonio Polito, che adesso ha
mollato la poltrona in Senato ed è
tornato a fare il giornalista, anche
lui dice che «o sei un soldatino o
passi per traditore, solo il governo
fa le leggi, i parlamentari devono
obbedire senza discutere».
Una frustrazione che aumenta col
passare del tempo, e al di là delle
convinzioni politiche, comprendi le
persone come Turigliatto e affini,
che a un certo punto mandano al
diavolo le “logiche di coalizione” e
votano secondo coscienza, e succeda
quello che deve succedere. Ricordo
il mio primo incontro con Prodi: io
fresco di elezione, lo fermo in
corridoio, «Presidente, posso
rubarle un minuto?». Lui guarda
l’orologio: «Va bene». «Ci mettiamo
lì?». «Perfetto». E ci appartiamo su
un divanetto di Montecitorio. Gli
parlo del problema del cumulo dei
redditi tra moglie e marito ai fini
della pensione, una delle tante
ingiustizie italiane, in campagna
elettorale ci avevo puntato
parecchio. Portavo con me una
lettera di una coppia milanese che
aveva deciso di separarsi, ma solo
sulla carta, per riuscire a ottenere
una pensione dignitosa per tutti e
due. La tiro fuori e gliela leggo.
Lui mi ascolta e sfodera
l’espressione che l’ha reso famoso,
gli occhi chiusi, le mani giunte, in
realtà mi sorge il dubbio che stia
per prendere sonno. Alla fine della
mia appassionata esposizione, lui
annuisce, e non so se avete presente
la sensazione, anzi la certezza,
quando sai di aver di fronte uno che
non ha ascoltato una sola parola di
quello che hai detto. Mi alzo, lo
ringrazio e me ne vado imbarazzato,
accorgendomi che nel frattempo
un’altra decina di questuanti si è
lì radunata ad aspettare il proprio
turno. Per addormentarlo
definitivamente. |
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CAPITOLO 5 - SETTIMANA CORTA PER GLI
ON.
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La sveglia mi urla nell’orecchio. È
martedì, primo giorno della
settimana lavorativa di noi
parlamentari. Il lunedì? Ma no, il
lunedì non esiste. I non romani più
coscienziosi lo usano per arrivare
in città, ma la maggior parte dei
deputati forestieri arriva il
martedì mattina, con tanti saluti
alle prime riunioni, «che cosa vuoi
che sia un’assenza, mica siamo a
scuola, e poi se non si va in
Commissione non c’è conseguenza
sullo stipendio». Certo che Roma sa
essere bellissima. I primi tempi, il
tragitto dalla casa che ho preso in
affitto in piazza Navona fino a
Montecitorio lo faccio in scooter,
tanto c’è il parcheggio della Camera
vigilato 24 ore su 24 dai
Carabinieri. Poi prendo le misure, e
decido che a piedi è anche meglio,
ci vogliono dieci minuti a dir
tanto. Quando mi alzo presto,
cammino fino al bar di fianco alla
chiesa di San Luigi dei Francesi, in
genere incontrando l’auto blu che
porta Andreotti in Senato, lui è
sempre il primo ad arrivare, poi
bevo il caffè e mi avvio verso
piazza del Parlamento. C’è caso di
incontrare il leghista Cota che fa
jogging nei pressi del Pantheon,
magari accompagnato dal compagno di
partito Caparini, alzano la mano e
mi salutano trafelati, va là che
Roma ladrona quasi quasi piace anche
a loro, alla fine si sono ambientati
più che bene.
Il traffico
insopportabile della Capitale
comincia a rumoreggiare, e
Montecitorio entra nella giornata
lentamente, i deputati arrivano in
ordine sparso con l’inseparabile
borsa di pelle, vero status symbol.
Un salto alla buvette, altro caffè e
via, si comincia. Come detto, il
martedì mattina c’è la riunione di
Commissione. Il primo voto in Aula è
previsto per il pomeriggio, e non è
raro che si tenga quando la
Commissione è ancora in corso. Ma
l’Aula risulta sempre quantomeno
mezza piena, d’altronde in questo
caso c’è la detrazione di 206 euro
se non raggiungi almeno il 30 per
cento delle votazioni utili, saltare
la seduta sarebbe un delitto, anche
se in casi estremi puoi portare la
giustificazione, e vai a controllare
se è vera. Entrano allora in scena i
famosi “pianisti”, quelli che votano
anche per gli assenti. Non mi
dilungo su una questione su cui si è
scritto e filmato e sputtanato più
volte. All’inizio te la meni un po’,
ma quando capisci che il costume è
generale – a destra, a sinistra, al
centro – ti adegui. Io qualche volta
mi sono messo d’accordo con una
collega: se non sono presente ci
pensa lei, e viceversa. Una volta ho
votato io per tutti quelli del mio
gruppo. Ci sono anche i “votatori
ufficiali” dei deputati più
importanti, che non è raro siano in
altre faccende affaccendati,
d’altronde loro mica possono perdere
tempo in Parlamento: al momento
opportuno, tirano fuori le due
schede e svolgono diligentemente il
compito. Il numero legale, e dunque
il controllo dei votanti, viene
richiesto solo per le questioni
particolarmente delicate, in ogni
caso non così frequentemente.
Oppure, quando l’Aula appare
squallidamente vuota, si procede con
il voto per alzata di mano, che per
molti è così romantico, «ma sì, fa
tanto antica Roma...». In realtà,
non essendo registrato con il
procedimento elettronico, è del
tutto valido ma non conta ai fini
della trattenuta. Cioè, se ci sei
bene, se non ci sei bene lo stesso:
la busta paga non ne soffre. Ed è
proprio quando la stampa comincia a
denunciare il malcostume dei
pianisti, che vengono a galla le
tante assenze dei deputati. In
questo senso, noi Verdi ci siamo
rivelati imbattibili. E allora, ecco
puntuale la circolare: “Care e cari
- ci scrive Angelo Bonelli,
presidente del gruppo parlamentare -
come avrete avuto modo di leggere
dai più importanti quotidiani
nazionali, il gruppo politico dei
Verdi viene posto come il meno
presente alle votazioni in Aula.
Questi articoli certamente non
aiutano a costruire una buona
immagine del ns. gruppo [eh già,
quel che importa è “l’immagine”]. È
evidente che ognuno di noi sa quanto
partecipa alle votazioni, pertanto
sono qui a richiamare con forza una
maggiore presenza alle votazioni.
Certo di un Vs. cortese riscontro,
invio cari saluti”. Gentilmente
ricambio.
Il mercoledì è di
certo la giornata clou. In
mattinata, si comincia ancora con la
riunione di Commissione, parole
parole e ancora parole. I giocatori
giramondo della Nazionale
parlamentari, che si allenano il
martedì sera sul campo militare
della Cecchignola – c’è il capitano
Manlio Contento di An, il portierone
rifondarolo Augusto Rocchi, l’ex
pulcino del Catania Salvatore Buglio
della Rosa nel Pugno (che però non è
stato ricandidato, dunque c’è da
rinforzare la fascia), il centrista
Peretti detto Beckenbauer, il
terzino sciupafemmine Simone
Baldelli di Forza Italia - discutono
di dribbling e schemi di gioco, e se
c’è qualcuno acciaccato si trascina
zoppicando fino alle attrezzate
salette dei fisioterapisti, un bel
massaggio e via, come nuovo, e sono
così bravi, i massaggiatori, che
devi prenotarti, e mica solo al
mercoledì. Ma verso l’una c’è il
voto in Aula. Ora di pranzo, dunque:
noi deputati abbiamo una gran fame,
è umano, no? Quindi, dopo aver
schiacciato il feral bottone, tutti
a mangiare. E di corsa, che poi non
si trova posto. La scena ricorda un
po’ l’intervallo della scuola: una
marea umana che si precipita verso
uno dei ristoranti - c’è quello
selfservice, veloce e informale, e
l’altro più tradizionale, con i
camerieri in livrea, infine il
bistrot della buvette. Gli onorevoli
si affrettano, corrono, sgomitano,
scorciatoiano per garantirsi il
tavolo. E insomma, è la pausa
pranzo, mica sarà un privilegio,
questo.
Dopo aver mangiato e
digerito, in genere verso le tre del
pomeriggio, va in scena quel reality
show che è il “question-time”, in
pratica un confronto diretto fra
governo e parlamentari,
approfondiremo più avanti. Prosegue
più o meno fino alle quattro e
mezza. E comunque non c’è voto,
ragion per cui l’Aula è quasi sempre
semi vuota, e in quell’ora e mezza
si possono sbrigare altre faccende,
sempre politiche e parlamentari, per
carità. Tanto l’adunata generale -
con voto incorporato, questa volta -
è per le cinque circa, e prosegue
fino alle otto di sera. Sempre che
non ci sia qualche partita di
calcio: in quel caso, come per
magia, alle sei e mezza anche le
questioni più complicate si
dipanano. Più Totti per tutti. E si
arriva al giovedì. Fin dalla
mattina, si respira l’aria del fine
settimana, i deputati che non sono
di Roma e dintorni fanno mente
locale e si mettono al telefono per
prenotare il volo. Si vota dalle
undici del mattino in poi, mal che
vada c’è un’altra seduta dopo
pranzo, verso le tre. Poi comincia
il fuggi-fuggi. Vai in guardaroba -
lo trovi poco prima del ristorante -
ed è pieno di borse, valigie,
trolley, pacchi e quant’altro, dal
primo pomeriggio si forma una fila
anche di un quarto d’ora. I taxi
scaldano i motori, gli onorevoli che
hanno prenotato lo stesso volo si
raggruppano, «parti adesso anche tu?
Allora mi unisco, così spendiamo
meno». E poi dicono che non tagliamo
le spese.
In realtà,
qualcuno rimane anche il venerdì.
Ma, in tutta onestà, è davvero raro.
Sono pochi, in un anno, i venerdì in
cui è espressamente richiesta la
presenza, chessò, durante la
Finanziaria (ne parleremo) o magari
per un voto importante in
Commissione. Ma, ripeto, sono casi
eccezionali, e quando si verificano
si limitano alla mattinata.
D’altronde, non è che possiamo
contarla tanto su: nei primi cento
giorni di questa mia prima
legislatura, la Camera ha tenuto 36
sedute, equivalenti secondo i
calcoli dei giornali a poco più di
due ore al giorno di lavoro. E
considerando vacanze e feste
comandate e ponti e week-end, su un
intero anno di attività - dunque da
aprile ad aprile - a Montecitorio si
è lavorato 160 giorni, vale a dire
nemmeno 5 mesi. Quattro mesi e venti
giorni in un anno. Poi dice che la
gente s’incazza. Ma c’è da precisare
una cosa: non è che sempre e
comunque il deputato non presente in
Aula o in Commissione è a grattarsi
la pancia sulla spiaggia di un’isola
caraibica. No, il più delle volte
sta facendo attività politica, ma
per il partito. Che cosa c’entra
l’attività di partito con il mandato
ricevuto dagli elettori? Nulla o
quasi, ma tant’è. E comunque, gira
per convegni e dibattiti (“...
seguirà buffet...”), partecipa a
riunioni organizzative. Oppure, c’è
caso che si metta cercar tessere.
Succede per esempio questo: c’è il
congresso dei Verdi, e Pecoraro
Scanio punta naturalmente alla
rielezione a segretario nazionale,
nonostante qualcuno storca la bocca
per questo fatto che lui è anche
parlamentare e ministro
contemporaneamente. E insomma
capisco l’antifona, qui c’è da tirar
su delle tessere, far iscrivere al
partito gente che stia dalla sua
parte. E io, che fino a qualche mese
prima m’immaginavo battagliare alla
Camera per risolvere problemi
epocali e passare alla storia
d’Italia, da fare mi dò. Telefono a
destra e a manca, chiamo la parente,
l’amico, chiedo al vicino di casa,
«ma io non ne so niente, di
ambientalismo», «e chissenefrega,
basta che fai la tessera e voti per
i delegati giusti, e come dici? Che
non sai chi sono i delegati? Ma te
lo dico io, ecco qui...». Alla fine
di tessere ne tiro su parecchie,
missione compiuta.
È vero,
non è che sia il massimo. Ma per
rimanere nel gruppo si è costretti a
fare anche così. Tornando alla
Camera, è aperta anche al sabato. Ma
questo, ancor più degli altri, è il
giorno degli ex. Gli ex deputati,
quelli che tornano a respirare
l’aria, magari sono anziani, non
hanno più tanto da fare, e poi il
richiamo del Palazzo è
irresistibile. E allora vedi che li
portano in macchina davanti
all’entrata, poi qualche badante li
scarica e li torna a prendere la
sera. È così: ci sono pensionati che
si ritrovano alla bocciofila, altri
in Parlamento. Loro entrano, si
aggirano per i saloni, vanno dal
barbiere, ricordano i bei tempi
andati, hanno ancora una tesserina
speciale per mangiare alla buvette,
e tutti i giorni. Discutono
animatamente, a volte scoppiano dei
litigi che finiscono a maleparole.
Qualcuno ogni tanto si addormenta su
un divanetto o nella sala lettura, i
commessi li lasciano riposare, poi
magari li svegliano con delicatezza,
«onorevole...». E c’è anche quello
che non riesce a trattenere i suoi
problemi d’incontinenza, e i
commessi ancora lì, ad assisterlo
con pazienza. Sia detto con tutto il
rispetto, ma sembra una casa di
riposo. E non datemi
dell’insensibile, non è che sia un
problema dar ospitalità a persone
che qui hanno lavorato, e certo
molto più di quanto faccia io. Ma
anche questo strano “sabato degli
ex” un po’ contribuisce
all’inquietante atmosfera da “basso
impero” che avvolge quello che
dovrebbe essere il cuore e il
cervello del Paese. E che
inesorabilmente sta risucchiando
anche me. |
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CAPITOLO 6 - CENE, NUTELLA E PORNO
|
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Immaginate un grande, enorme,
gigantesco ufficio statale. Ma anche
no, anche semplicemente un enorme
ufficio, di quelli che tanti
italiani vivono quotidianamente. Con
tutte le dinamiche che ne
conseguono: lavoro chi più chi meno,
ma anche amicizie, antipatie,
tresche più o meno note, litigi col
superiore, ripicche. E poi
pettegolezzi, pettegolezzi e ancora
pettegolezzi. Le malelingue, a
Montecitorio, sono in servizio
permanente effettivo. Com’è ovvio,
de visu è tutto un sorriso e gran
pacche sulle spalle. Ma dietro...
Gli uomini, se giovani e appena
appena intraprendenti, sono
raccomandati e naturalmente
omosessuali - «Poletti? Bè, certo,
se la fa con Pecoraro Scanio...» -
oppure inguaribili puttanieri - «Poletti
con Pecoraro? Ma no, sei indietro,
quello va a donnine una sera sì e
l’altra pure...». E le donne? Quelle
più carine d i Forza Italia sono
prima o poi tutte indistintamente
indicate come amanti di Berlusconi,
e succede il contrario di ciò che si
pensa, cioè che debbano lavorare il
doppio delle altre per dimostrare
che valgono, in questo senso
chiedere informazioni alla povera
Carfagna, che ancora non è riuscita
a farsi perdonare cotanta avvenenza.
Ma questa caccia quotidiana alla
preda dell’insaziabile Silvio ha
anche un aspetto paradossale, perché
la signora o signorina
momentaneamente indicata come
accompagnatrice clandestina del
Cavaliere viene improvvisamente
coperta d’ogni tipo d’attenzione e
galanteria dai deputati di
centrodestra e non solo - «ma come
stai», «e come sei bella», «posso
fare qualcosa per te» -, chissà mai
che non possa metterli in buona luce
con il leader che tutto può.
Figuratevi poi che chiacchiericcio
si porta dietro un personaggio come
Wladimir Luxuria, il deputato
transgender, che poi significa “non
chiaramente identificabile come uomo
o donna”. In ogni caso, per
semplificare, ne parlerò al
femminile. Luxuria fa parte con me
della Commissione cultura, è una
delle più presenti e acute: studia,
passa le notti ad approfondire, e
forse per far vedere che non è lì
solo in quanto “personaggio scomodo”
interviene sempre e comunque, anche
troppo. Gli uomini la studiano
incuriositi, le donne la odiano e la
criticano per principio, soprattutto
quando si tratta di vestiti, «ma
come si veste quella lì? Ma secondo
te gioca a rugby?». E poi è molto
abile con i giornalisti, sa come
“usarli” e per questo è spesso sui
giornali, cosa che aumenta
l’antipatia nei suoi confronti. Un
giorno prendo un caffè con lei,
tutti ci vedono ridere e scherzare,
poi vado in Aula. Arriva un commesso
con una busta: me la manda un sempre
severissimo esponente dell’Udc, uno
che in ogni occasione si atteggia a
baciapile bigottone. Leggo il
biglietto: “Ma Luxuria ce l’ha
ancora o se l’è tagliato?”. Alzo lo
sguardo, lo rivolgo verso di lui. E
vedo che se la ride, facendo gesti
come a dire “tu lo sai, vero?”.
Neanche alle elementari.
Ma
passiamo a un altro “passatempo
istituzionale” che molto impegna e
diverte gli onorevoli: sono i
“gruppi di pressione”, le “lobby”,
per dirla all’americana. Trattasi di
drappelli di deputati uniti da un
comune interesse, che raggruppandosi
anche al di là degli steccati di
schieramento intendono far fronte
comune ed eventualmente incidere su
decisioni legislative che riguardano
l’argomento in questione.
Intendiamoci, spesso si occupano di
situazioni davvero importanti, non
so, l’amicizia per Israele oppure i
diritti dei bambini o ancora quelli
degli animali, e ho scelto a caso.
Ma non può non strappare un sorriso
leggere che l’onorevole leghista
Grimoldi, per rispondere a uno dei
tanti aumenti fiscali paventati dal
governo Prodi - in questo caso,
l’innalzamento dell’Iva sulla
cioccolata -, si sta sbattendo non
poco per “costituire l’Intergruppo
per la difesa della Nutella”,
sottolineando che “la Nutella è
simbolo di intere generazioni, chi
non è cresciuto a pane e Nutella?”.
E Grimoldi invita a considerare il
fatto che “la nostra amata crema di
nocciole ha una capacità di
penetrazione nelle famiglie italiane
pari al 100%, mentre altri generi
spalmabili soltanto del 50%”. Se da
una parte la Ferrero ringrazia,
dall’altra si aspetta la replica del
formaggino Mio. E dunque, vai col
gruppo: la mastelliana Sandra Cioffi
auspica la costituzione
dell’intergruppo “Amiche e amici del
mare”? Le risponde Maria Ida
Germontani, di An, con l’intergruppo
“Amiche e amici dei laghi e dei
fiumi”. L’ulivista ora Partito
Democratico Massimo Vannucci segnala
che già una cinquantina di
onorevoli, che coprono tutto l’arco
parlamentare, aderiscono al gruppo
“Amici del termalismo”, e non state
ad ascoltare chi insinua che la
ragione sociale sia anche di
ottenere qualche sconto per
ritemprarsi a forza di fanghi.
Naturalmente si sprecano gli
onorevoli club calcistici sul genere
“Viva la Juve e l’Inter e il Milan e
la Roma e anche il Napoli”, non mi
dilungo perché di calcio non
m’intendo. E poi gli
intellettualissimi “Amici dei
veicoli di interessi storico”, vale
a dire le auto d’epoca, capitanati
dal senatore Filippo Berselli (e
infatti vuole essere un “intergruppo
parlamentare”), e i mai fuori moda
“Amici della filatelia”,
organizzatore Carlo Giovanardi, e
per restare su un livello alto c’è
l’onorevole Pedrini che vuole
“incentivare il turismo e la
crescita economica tramite lo
sviluppo del gioco del golf”,
controbilanciato dai più
tradizionali “Amici della
bicicletta”, di cui m’informa
l’ulivista emiliana Carmen Motta.
Chiudo il discorso con una nota
d’altri tempi, quasi romantica,
segnalando l’iniziativa dell’azzurro
Paolo Russo, che con passione
rilancia il gruppo parlamentare
“Amici delle bocce”. Nel senso dello
sport, naturalmente. Appuntamenti
molto apprezzati da noi deputati
sono poi le degustazioni di prodotti
tipici: arrivano i rappresentanti di
questa o quella regione, invitati
dagli onorevoli da lì provenienti, e
servono - in genere al ristorante di
Montecitorio - i piatti e i vini
della zona. Sono sempre affollate,
le degustazioni, e la scena si
ripete pressoché uguale: ci sono
queste persone, spesso si tratta di
gente di paese che del Parlamento ha
coltivato un’immagine quasi mitica.
E si trovano lì, spaesati, ad
osservare un’orda di affamati che si
getta a peso morto su salame o
tortellini o Franciacorta, e poi
magari c’è qualcuno che si avvicina
al bancone, «che delizia questo
vino, ma non ne ho avuto nemmeno una
bottiglia», e loro con espressione
paziente ad allungargli - anzi, ad
allungarci - la bottiglia. Scene
mica tanto diverse da quelle che
vedevo durante le mie trasmissioni,
quando invitavo il pubblico ad
assaggiare le ricette offerte dal
paesino di turno.
Ma sì dài,
che gli italiani sono così, quando
si mangia va sempre bene, e non si
vede perché noi deputati dovremmo
essere l’eccezione. D’altronde che
cosa vi aspettate, che tutti si
corra per esempio alla “Prima
manifestazione d’indipendenza dalla
lingua inglese”, organizzata
dall’associazione “Esperanto” cui è
stata concessa per l’occasione la
sala stampa della Camera,
“intervengono tra gli altri il
deputato europeo Alfredo Antoniozzi
e l’onorevole Bruno Mellano”? No,
meglio la bresaola. E poi ci sono le
notti, le “notti romane”, con le
terrazze e i salotti e le foto su
Dagospia, il famoso sito internet di
gossip. Ora, non vorrei sbriciolare
un mito, ma le “notti romane” sono
una gran noia. Certo che le feste ci
sono, per noi Verdi il punto di
riferimento è l’avvocato Paola
Balducci. Lei è una bella signora
molto gentile e ospitale, ha una
splendida casa in zona Botteghe
Oscure, la sua terrazza è
leggendaria. Mi viene in mente uno
di questi ritrovi, l’allenatore
personale della Balducci le aveva
suggerito di puntare sulla carne
anche per questioni di dieta, e
allora era tutta una griglia e
bistecche grandi così,
all’americana, e infatti se non
ricordo male c’erano piatti guarniti
con bandierina a stelle e strisce,
ma lì non c’era da protestare contro
nessuna base militare yankee, né i
vegetariani avrebbero avuto da dire.
In genere, però, i party più chic
sono riservati ai pezzi grossi -
della politica, della finanza, dello
spettacolo -, gli onorevoli di bassa
lega se riescono s’intrufolano, poi
si mettono nell’angolo e allargano
le narici per annusare il profumo
del potere. Il più delle volte,
invece, noi peones ci si organizza
per passare serate al limite della
tristezza. I Verdi escono coi Verdi,
magari andiamo alla Locanda del
Pellegrino, e poi leghisti con
leghisti, quelli di An con altri di
An. O anche i gruppi territoriali,
lombardi con lombardi, napoletani
con napoletani e così via. Si va nel
solito ristorante dove ti trattano
coi guanti - «buonasera onorevole,
cosa le porto onorevole». E si cerca
di coinvolgere un ministro o al
limite un sottosegretario - tanto
nel governo Prodi sono cento e più,
qualcuno si trova -, perché arrivare
al locale con l’auto blu fa tutta
un’altra scena, senza contare che si
risparmiano i soldi del taxi. Si
finisce quasi sempre a spettegolare
su tizio e caio, col risultato che
il giorno dopo, saputo che quello
che fa l’amico in realtà sparla di
te a più non posso, cerchi di
ostacolarlo in ogni sua iniziativa
politica, così, per antipatia
personale. Ed è vero, a fine serata
c’è anche chi si rifugia dall’amante
più o meno giovane, o raccatta un
po’ d’amore a pagamento, al limite
si svena e investe su una bellissima
“escort” contattata via Internet,
salvo poi sbandierare conquiste e
performance improbabili manco fosse
Mastroianni.
Ma le orge in
stile rockstar o i festini con le
più disinibite vallette del momento,
bè, scusate la delusione, ma per
quel che mi riguarda sono più che
altro letteratura d’accatto. In
pornostar e dintorni, in effetti,
una volta mi sono imbattuto. Mi
telefona il capo ufficio stampa del
partito, Giovanni Nani, e si
lamenta, «Poletti, basta con questi
scherzi», io casco dalle nuvole, «ma
quali scherzi?». E lui seccato mi
dice che insomma, c’è il manager di
questa pornostar, Federica Zarri
nota anche come Diana Busòn, che lo
perseguita perché lei dice di voler
entrare nei Verdi, e siccome è
lombarda credeva c’entrassi io. Si
apre così un gioioso dibattito,
pornostar sì pornostar no, con il
nostro Camillo Piazza, appassionato
di balli sudamericani e che già
aveva organizzato una manifestazione
con diverse attrici hard per salvare
il fiume Lambro dall’inquinamento, a
sostenere l’ingresso di Federica nel
partito, «perché, che male ci
sarebbe? ». Ma la discussione
s’interrompe bruscamente: veniamo
infatti a sapere dai giornali che la
arri ha cambiato idea, intende
aprire un Circolo della Libertà. La
volgar battuta nasce spontanea:
cazzi loro. E giù risatacce. |
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CAPITOLO
7 -
AULA, LA FABBRICA DELLE BUFALE
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E poi c’è questo strano rapporto coi
giornalisti, anzi i cronisti
parlamentari, che vivo in maniera
ambivalente essendo anch’io
giornalista, sia pur disprezzato da
quelli “seri” perché faccio la tivù
nazional-popolare, sono quello della
sciura Maria, ricordate? E comunque,
il giornalista della grande testata
lo riconosci subito, arrivi in
Transatlantico e lo vedi pienissimo
di seissimo che passeggia a
braccetto con il segretario di
partito, anzi ormai sembra anche lui
un segretario di partito, tutto
impettito nel suo vestito elegante.
In realtà, l’impressione è che qui a
Montecitorio ci venga anche per fare
passerella, tanto lui lavora più che
altro al telefono, nella sua agenda
tiene tutti i numeri che più
riservati non si può, di certo ha
più confidenza lui con i politici
d’alto rango che il 90 per cento dei
parlamentari. E infatti molto spesso
noi soldati semplici dell’Aula lo
veniamo a sapere dai giornali, che
il partito intende presentare questo
o quel progetto di legge, e soltanto
in seguito il ministro viene in
Commissione a spiegarcelo. Con noi
ad annuire come somarelli. Certo,
come direbbe lo psichiatra, quello
tra politica e stampa è un rapporto
border-line. Noi deputati di seconda
fila spacciamo le informazioni di
cui siamo a conoscenza, soprattutto
i ricercatissimi retroscena, che
quasi sempre sono pettegolezzi di
quarta mano, e spesso si riducono a
impressioni su ciò che sta per
accadere, e a volte proprio
c’inventiamo di sana pianta, magari
per mettere in difficoltà il rivale
politico che nemmeno tanto raramente
è dello stesso partito. In cambio,
chiediamo un po’ di spazio sul
giornale per le nostre iniziative,
le proposte che sappiamo non avranno
mai seguito, la dichiarazione che
serve per far vedere al “mondo
esterno” che esistiamo. Ecco, è
questo: dichiaro, dunque esisto.
Questa è una regola fondamentale.
Far circolare sulle agenzie di
stampa il nostro pensiero su
qualunque argomento, anche quello
più lontano dalle nostre effettive
competenze, serve a qualcuno per
nutrire la propria vanità, ad altri
per mettersi in evidenza agli occhi
del capo, presente o futuro, e agli
stessi capi per dimostrare il loro
quotidiano impegno al servizio del
Paese. In questo senso, Pecoraro
Scanio è ormai leggendario: ricordo
un articolo in cui si calcolava che
in un solo mese era riuscito a far
comparire il suo nome in 133 titoli
dell’agenzia Ansa. Un record.
Ma non si dica che è l’unico:
tutti, compreso me, parlano di tutto
e anche del suo contrario. E pure ci
parliamo addosso: un deputato
rilascia una dichiarazione alle
agenzie? Subito si aggiunge quella
dell’altro onorevole, poi del
capogruppo, quindi esterna il
sottosegretario, infine il ministro.
Cinque voci sullo stesso argomento
per un solo partito, qualcosa
passerà. Il gioco di sponda prevede
poi le cosiddette “interrogazioni a
comando”. C’è il giornale che fa
l’inchiesta, l’articolista ti
chiama, «perché non sollevi il
caso?». Tu prepari l’interrogazione
e la presenti. La risposta del
governo arriva dopo mesi (se
arriva). Ma il giornale può
esultare: “Il caso X arriva in
Parlamento”. E anche i tuoi elettori
sono contenti. Ultimamente poi, con
tutti questi delitti di cui il
pubblico è ghiotto, i giornalisti ti
chiamano e chiedono notizie
sull’assassino in questione, visto
che i parlamentari possono entrare
in carcere con la scusa di
“controllare come viene trattato il
detenuto”. E in realtà, una volta
usciti, passano al cronista di
riferimento le informazioni
necessarie all’articolo - l’omicida
pare sereno oppure è turbato, legge
romanzi piuttosto che vede i film
gialli, in cella fa ginnastica e via
dicendo.
In effetti, con
questa storia delle inchieste
giornalistiche sugli sprechi di
Palazzo e anche la continua
pubblicazione di intercettazioni
telefoniche più o meno sputtananti,
la questione è diventata delicata.
In questo senso, ero e resto
convinto che sia compito della
stampa tenere sotto controllo vita e
comportamenti di chi ricopre un
incarico pubblico. Per questo,
eletto da neanche quindici giorni,
promuovo la nascita di un “Comitato
per la libera pubblicazione delle
intercettazioni telefoniche delle
inchieste che riguardano il bene
pubblico”. Dopo qualche giorno, mi
arrendo all’evidenza: messe in fila,
le adesioni occupano meno spazio del
titolo dell’iniziativa. Tra l’altro,
al momento del voto in Aula sul
decreto che ne limita la
pubblicazione sui giornali, ci
saremmo astenuti soltanto in sette,
con gli altri onorevoli a fischiarci
e a dircene di ogni. E sempre a
proposito di intercettazioni, è
davvero comico come hanno cambiato
le abitudini telefoniche degli
onorevoli, anche quando nulla hanno
da nascondere. Ormai si parla solo
per metafore, col risultato che le
conversazioni durano il doppio.
«Ciao Poletti, senti, hai poi
parlato con quello per quell’altra
cosa là?». «Eh? Chi? Quale
cosa?». «Ma sì dài, la questione
quella lì... Hai capito?». «No,
guarda...». «La cena, la cena con
coso...». «Ma quale cena? E con
chi?». «Ma tu non sei Poletti?».
«Sì, certo che sono io». «Ma che
telefono è questo?». «Ma è il
mio, mi hai chiamato tu!». «Ah
già. E non dobbiamo andare a cena?».
«Sì, mercoledì sera, non ti
preoccupare che me lo ricordo».
«E non viene anche quello di
quell’altro partito?». «Sì, viene
anche lui, e allora?». «Bé, sai,
al telefono...». «Ma che problema
c’è?». «No, niente, ma di questi
tempi è meglio stare coperti, no?».
Ma le denunce su Casta e
dintorni provocano altri effetti
paradossali. Innanzitutto, dopo ogni
privilegio svelato, si susseguono le
proposte di legge per eliminarlo, ma
costruite in modo da non poter
essere tecnicamente accolte, così da
ottenere due effetti: per prima cosa
sei ripreso dai giornali, per una
volta in senso positivo, e poi ti
risparmi le occhiatacce di chi di
quei privilegi gode. Ma la cosa più
divertente - o disarmante - è
un’altra. Perché succede, e io ne
sono stato testimone diretto, che
l’articolo di denuncia su una delle
tante assurde franchigie riservate
ai deputati sveli a noi stessi
onorevoli un vantaggio di cui non
sapevamo l’esistenza. E allora ci si
informa - «ma è vero che abbiamo
diritto anche a questo?» - per poi
cercare di usufruirne. Almeno fino a
quando il beneficio in questione non
sarà travolto dal montante disgusto
generale. È un mondo del tutto
autoreferenziale, dai politici
stessi che si fanno intervistare per
denunciare la “politica politicante”
a quelli che si autovotano nel
sondaggio lanciato da Italia Oggi
sui “cento parlamentari da salvare”,
e vedi i deputati che compilano la
scheda del giornale segnalando il
proprio nome, e quando si accorgono
che li hai visti sorridono
imbarazzati, «ma sì, dài, è uno
scherzo».
Il problema semmai
nasce quando proprio i giornali ti
pizzicano sul fatto, magari
ritirando fuori vecchie
dichiarazioni che contraddicono
l’immagine che adesso vuoi dare. Io
poi, col mio passato in Padania
quando la Lega era dura e pura e
Bossi chiamava il Nord alla
secessione, sono bersaglio facile.
Eletto con i Verdi, dunque
politicamente alleato con l’estrema
sinistra pur non essendo in quasi
niente d’accordo con lei, provoco
infatti un mezzo coccolone ai miei
compagni di schieramento - e anche,
a dir la verità, delle occhiate di
scherno ai danni del mio gruppo
parlamentare, sul genere “visto chi
vi siete portati in casa?” - quando
proprio Libero ripubblica un
articolo da me firmato anni prima,
dove parlando di clandestini
provocatoriamente mi definivo
“razzista” e chiedevo senza giri di
parole di “sbattere fuori questi
maledetti”. Provate a pensare alla
faccia, chessò, dei Comunisti
Italiani... Non per discolparmi - e
infatti non lo faccio, anzi ci ho
parecchio riso su - ma sono
figuracce in cui, nel Paese dei
ribaltoni e ribaltini, la maggior
parte dei parlamentari è incappata
almeno una volta. Tanto, la tattica
di reazione, a destra e a sinistra,
è sempre la stessa: se il giornale è
politicamente avverso, meglio
controbattere poco o niente, «tanto
i nostri non lo leggono». Oppure
gridare alla “strumentalizzazione di
parte”.
E passiamo la tivù.
Ah, quanto ci piace a noi
parlamentari la tivù. A parte quei
pazzi delle Iene, che organizzano
agguati davanti al Parlamento per
farti fare delle gran figuracce, e
quando si sparge la voce che sono
nei paraggi c’è chi cerca in ogni
modo di mimetizzarsi per evitarli.
Per il resto, ho spiegato che il
mezzo lo conosco, dunque i
meccanismi già li avevo compresi. Ma
osservati dall’interno, bè, sembra
un film comico. E non mi riferisco
necessariamente ai pezzi grossi,
quelli che vengono invitati a “Porta
a porta”, che loro in effetti
qualcosa hanno - avrebbero - da
dire, comunicare, spiegare,
litigare. Parlo ancora una volta di
noi peones. Che, tanto per fare un
esempio, facciamo a gara per
comparire di fianco al segretario
durante un’intervista al tg, così ci
vedono e facciamo la figura di
quelli che contano qualcosa. Un po’
come il famoso disturbatore Paolini.
Solo che a noi non ci cacciano. Un
altro show va in onda durante il
cosiddetto “question time”. In
teoria, è un confronto durante il
quale i rappresentanti del governo -
ministri o quant’altro - rispondono
in Aula alle domande poste dai
deputati. In pratica, si trasforma
in una vetrina a uso e consumo della
televisione, visto che viene
trasmesso in diretta dalla Rai. In
genere, si tiene il mercoledì. Gli
interventi vanno però consegnati
entro lunedì a mezzogiorno, dunque
le risposte sono preconfezionate.
Quasi sempre, l’Aula è semivuota,
poiché in quella ora e mezza non si
vota, quindi liberi tutti: si
riempie soltanto quando vengono
affrontati temi particolarmente
importanti, e allora tutti presenti,
chissà che i giornali non ne
parlino. In ogni caso, tra i
deputati ci sono gli aficionados del
“question time”, ormai espertissimi
di regia e inquadrature. Il mio
vicino di ufficio Arnold Cassola,
per esempio, è bravissimo: lui è
stato eletto in una circoscrizione
estera, e dunque quelli che l’hanno
votato vedono in video quanto si dà
da fare, e questa volta non lo dico
in senso ironico, si dà da fare
davvero. Certo, sugli effetti
concreti dei suoi appassionati
interventi qualche perplessità
rimane. Ma tant’è: l’importante è
parlare, qualche traccia resterà.
Anche se a volte sarebbe meglio di
no. E passiamo la tivù. Ah, quanto
ci piace a noi parlamentari la tivù.
A parte quei pazzi delle Iene, che
organizzano agguati davanti al
Parlamento per farti fare delle gran
figuracce, e quando si sparge la
voce che sono nei paraggi c’è chi
cerca in ogni modo di mimetizzarsi
per evitarli. Per il resto, ho
spiegato che il mezzo lo conosco,
dunque i meccanismi già li avevo
compresi. Ma osservati dall’interno,
bè, sembra un film comico. E non mi
riferisco necessariamente ai pezzi
grossi, quelli che vengono invitati
a “Porta a porta”, che loro in
effetti qualcosa hanno - avrebbero -
da dire, comunicare, spiegare,
litigare. Parlo ancora una volta di
noi peones. Che, tanto per fare un
esempio, facciamo a gara per
comparire di fianco al segretario
durante un’intervista al tg, così ci
vedono e facciamo la figura di
quelli che contano qualcosa. Un po’
come il famoso disturbatore Paolini.
Solo che a noi non ci cacciano. Un
altro show va in onda durante il
cosiddetto “question time”. In
teoria, è un confronto durante il
quale i rappresentanti del governo -
ministri o quant’altro - rispondono
in Aula alle domande poste dai
deputati. In pratica, si trasforma
in una vetrina a uso e consumo della
televisione, visto che viene
trasmesso in diretta dalla Rai. In
genere, si tiene il mercoledì. Gli
interventi vanno però consegnati
entro lunedì a mezzogiorno, dunque
le risposte sono preconfezionate.
Quasi sempre, l’Aula è semivuota,
poiché in quella ora e mezza non si
vota, quindi liberi tutti: si
riempie soltanto quando vengono
affrontati temi particolarmente
importanti, e allora tutti presenti,
chissà che i giornali non ne
parlino. In ogni caso, tra i
deputati ci sono gli aficionados del
“question time”, ormai espertissimi
di regia e inquadrature. Il mio
vicino di ufficio Arnold Cassola,
per esempio, è bravissimo: lui è
stato eletto in una circoscrizione
estera, e dunque quelli che l’hanno
votato vedono in video quanto si dà
da fare, e questa volta non lo dico
in senso ironico, si dà da fare
davvero. Certo, sugli effetti
concreti dei suoi appassionati
interventi qualche perplessità
rimane. Ma tant’è: l’importante è
parlare, qualche traccia resterà.
Anche se a volte sarebbe meglio di
no. |
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CAPITOLO
8 -
DEPUTATI IN VENDITA AL BAZAR
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Ma adesso, per
favore, adesso non si dica che a
Montecitorio non lavoriamo mai. Non
è così. Prendiamo la Finanziaria, la
legge di bilancio, quella in base
alla quale il governo decide come e
dove spendere i soldi. Quello sì che
è un periodo caldo, anche se arriva
prima di Natale. Lo si comincia a
capire dagli sms: già durante l’anno
ne arrivano parecchi al giorno,
“presenziare alla tal riunione”,
“voto in Aula sulla tal questione”,
ma quando c’è di mezzo la
Finanziaria è un continuo, il
cellulare manda trillini d’avviso
ogni tre minuti. E poi fax ed e-mail
di convocazione, decine e decine e
decine, carta e carta e ancora
carta, un settimanale ha calcolato
che soltanto per le convocazioni via
fax degli organi della Camera
vengono spesi 200mila euro ogni
anno. E insomma, sulla Finanziaria
tutti i deputati sono chiamati a
raccolta, prima in Commissione per
mettere a punto i capitoli di spesa,
poi in emiciclo, quando c’è da
votare. In realtà, c’è da dire che
si tratta dell’ennesima occasione in
cui ti rendi conto che, su 630
onorevoli, quelli che effettivamente
hanno voce in capitolo sono sì e no
un decimo, ed è un calcolo per
eccesso. A decidere è il segretario
di partito, che nel mio caso è anche
ministro, insieme con gli altri
esponenti di governo. Al limite, ne
può parlare con il capogruppo e
qualche altro fedelissimo. A tutti
gli altri non resta che schiacciare
il bottone a comando. Salvo prima
sorbirsi le relazioni introduttive
dei vari sottosegretari, spesso
sconosciuti agli stessi deputati,
che vengono a spiegare la rava e la
fava, e tu fai finta d’ascoltare,
già sapendo che la “disciplina di
coalizione” t’impedirà di ragionare
con la tua, di testa. In questo
senso, mi viene in mente il mio
primo incontro con Padoa-Schioppa,
l’algido e sempre elegante
ministrone dell’Economia. Lo vedo in
un piccolo supermercato vicino alla
mia casa romana, mattino presto,
anche lui a fare la spesa. Un saluto
timido e in me si rafforza la
convinzione: uno che si aggira per
gli scaffali vive la realtà di tutti
i giorni, vedrai che è l’uomo
giusto. E invece - ma questa è
un’opinione del tutto personale -
con l’andar del tempo mi ricredo: le
sue Finanziarie partono in un modo e
finiscono in un altro, stritolate da
mediazioni e pressioni di partitini
e partitoni di governo, ciò che
rimane è una gran saccagnata fiscale
e via andare.
Uno dei miei
chiodi fissi è sempre stato quello
di esentare dal pagamento del canone
Rai gli anziani indigenti sopra i 75
anni, provvedimento magari non
epocale ma secondo me simbolico, e
comunque gli telefono per perorare
la causa. Mi risponde una
segretaria, «vuole parlare col
ministro? può prima dire a me?», e
io le espongo la questione, alla
fine chiedendo un appuntamento.
Niente da fare, la segretaria
risponde che no, l’agenda del
ministro è piena, non ha tempo. Mi
rivolgo allora al mio capogruppo
Bonelli, ma anche lì nisba, è tutto
preso a organizzare non so quale
spedizione per salvare non so quale
foresta, mi sembra quella
amazzonica. Risultato: il canone Rai
è addirittura aumentato, la foresta
amazzonica va scomparendo. La
Finanziaria, dicevo. È un caos
totale, il Palazzo impazzisce. I
tempi sono contingentati, le sedute
si prolungano fino a notte fonda,
c’è chi si addormenta in Aula e sui
divanetti, si organizzano i turni
per andare a mangiare, tanto il
ristorante è sempre aperto, «voti tu
per me? poi ti copro io», la
sigaretta è pressoché libera. Gli
avvocati si portano le pratiche più
urgenti, già che ci sono gli danno
un’occhiata, d’altronde a
Montecitorio i doppiolavoristi non
hanno bisogno di nascondersi. Altri
giochicchiano con il telefonino, c’è
addirittura chi si diverte con
queste chat erotiche, poi se le
guardano a vicenda e sghignazzano.
Uno spettacolo deprimente, questa è
la verità, e lo dico senza il minimo
snobismo, io ci sono in mezzo, sono
uno dei commedianti, e pagato per
questo, per giunta. I gruppi
parlamentari si riuniscono
continuamente, ma sono pantomime,
alla fine delle quali il segretario
o il capogruppo ti dice come votare,
peraltro in questa legislatura è il
Senato a essere in bilico, alla
Camera non puoi nemmeno pensare a un
“dispetto”, nel senso che non
avrebbe alcuna incidenza.
Nei corridoi incontri i ministri che
corrono da una parte all’altra, a
notte fonda qualcuno ha sbagliato a
votare oppure il tal gruppetto ha
voluto mandare un avvertimento al
governo, dal boato si capisce che è
passato un emendamento
dell’opposizione, ma l’argomento è
secondario, cambia nulla. Poi c’è la
Galleria dei Presidenti, in cui i
deputati possono ricevere le visite,
e lì incontri i rappresentanti delle
varie lobby, quelli interessati a
che passi questo o quel
provvedimento, e cercano di
convincerti. Anzi, l’emendamento te
lo portano per tempo direttamente
loro, già bell’e scritto, «allora,
cosa dici, lo presenti tu?», magari
trovi la questione effettivamente
interessante ma fai loro presente
che comunque saresti l’unico a
sostenerlo, e loro non fanno una
piega, «tu presentalo, che noi siamo
già in contatto con altri
onorevoli...». E c’è caso che
nemmeno tanto velatamente ti
propongano una contropartita in
denaro. Cioè, per dirla chiara, se
presenti il loro emendamento ti
danno dei soldi. A me è successo. Ho
rifiutato. E nel mezzo di questo
gran mercato delle vacche non è raro
assistere a dei gran litigi, ne
ricordo uno alla buvette tra il
nostro capogruppo Bonelli e il
ministro Bersani finito a grida e
minacce, «io questo non te lo
voto!!», ma poi in genere rientra
tutto. Magari, se sei fortunato,
riesci a strappare al governo una
“raccomandazione” su un determinato
problema, che non vuol dire nulla ma
puoi in seguito esibirla nel tuo
collegio e spacciarla per un grande
successo, «visto che sto lavorando
per voi?». Che tristezza.
Il
meccanismo della Finanziaria è
astruso. C’è la prima lettura, dove
vengono presentati i provvedimenti e
discussi gli emendamenti, si vota e
si va. Ma poi il faldone passa
all’altro organo parlamentare per la
seconda lettura, che è quella più
importante, perché si inseriscono le
eventuali variazioni e si rivota.
Qui ci sarebbe da aprire un altro
discorso, quello della
sovrapposizione di competenze fra
Camera e Senato, l’annoso dibattito
sull’inutilità del nostro cosiddetto
“bicameralismo perfetto”: non
sarebbe più logico e funzionale
discuterla una volta sola, ’sta
benedetta Finanziaria? Ma rischiamo
d’infilarci in un ginepraio, nemmeno
ne abbiamo la competenza. In ogni
caso, ne consegue che il passaggio
fondamentale è la seconda lettura.
Nel mio caso, ho vissuto entrambi i
brividi. Perché nel mio primo anno
da deputato, alla Camera la legge di
bilancio arriva in prima lettura.
Nel secondo anno, invece, a
Montecitorio ci tocca la seconda e
più importante. Tra l’altro, se da
principio faccio parte del gruppo
parlamentare dei Verdi, poi passo a
quello di Sinistra Democratica.
E qui vale la pena di raccontare
la trasmigrazione. Un giorno mi
chiama Pecoraro Scanio e mi convoca
d’urgenza, «ci vediamo a casa mia?
Devo parlarti di una cosa
importante». Subito penso: ecco,
arriva il cazziatone. In effetti,
c’erano state quelle trasmissioni in
cui svelavo qualche onorevole
trucchetto, e poi le assemblee in
Piemonte dove avevo raccontato dei
nostri stipendi altissimi, e i
collaboratori di un deputato Verde
gli avevano chiesto l’aumento, e
insomma questo se l’era presa.
Arrivo da Pecoraro: lui abita in un
bell’appartamento all’ultimo piano
di un palazzo nel centro di Roma,
poco lontano dalla stazione Termini,
nella zona delle ambasciate e dei
consolati. Dalla sua terrazza si
gode un panorama magnifico, ci ha
anche piazzato una vasca in stile
Jacuzzi, così puoi farti
l’idromassaggio e cose del genere
guardando le stelle, comunque uno
spettacolo, e a quel paese le
raccomandazioni sui risparmi. Arrivo
e dopo i saluti di rito mi spiega:
ci sarebbe da aderire a un altro
gruppo parlamentare, quello di
Sinistra Democratica. Io? «Sì, tu».
Il discorso è semplice: il ministro
Fabio Mussi e i suoi, in rotta con i
Ds soprattutto per via del
costituendo Partito Democratico,
hanno costituito alla Camera un
gruppo parlamentare per conto
proprio, chiamato Sinistra
Democratica. Solo che adesso dal
nuovo gruppo se ne sono andati
Grillini e altri due onorevoli, e ci
vogliono almeno venti deputati per
tenerlo in piedi e avere a
disposizione gli uffici e incassare
i contributi, e insomma mi par di
capire che loro stanno per scendere
a diciannove, hanno bisogno di un
altro. «Tu fai così - mi dice in
sostanza Pecoraro -, aderisci a
Sinistra Democratica, il nostro
capogruppo ti scrive una bella
lettera in cui ti ringrazia per
l’adesione tecnica e il gioco è
fatto». Spiego che io con Mussi non
c’ho mai nemmeno parlato, questo
loro capogruppo l’avrò incrociato
due volte a dir tanto, e poi non so
nemmeno che politica intendano fare,
questi. Pecoraro mi tranquillizza,
«è solo un’adesione tecnica», e mi
prospetta la possibilità di essere
candidato alle elezioni europee,
potrei diventare subito commissario
dei Verdi a Sondrio, che lì ai Verdi
se possono gli sparano, comunque
sono offerte che non m’interessano.
E allora, volendo, posso cambiare
Commissione, ce n’è una che gradisco
più della Cultura? Ci penso e decido
che va bene, iscrivetemi pure a
Sinistra Democratica, per quanto mi
riguarda mi piacerebbe la
Commissione Affari Esteri, lì ci
sono i big.
E così succede:
io, anticomunista da sempre, mi
intruppo con i fuoriusciti dei Ds,
questi neanche mi parlano ma mi
inviano delle email che cominciano
con “Caro compagno”, e la mia
“adesione tecnica” mi frutta un
posto in Commissione Esteri. Mi
arriva la letterina preannunciata:
«Caro Roberto, desidero ringraziarti
a nome del gruppo parlamentare dei
Verdi per la preziosa disponibilità
che hai dato nell’iscriverti
“tecnicamente” [nella lettera è così
tra virgolette] al gruppo Sinistra
Democratica Socialismo Europeo. È
stato un atto di importante
sensibilità politica che consente al
suddetto gruppo di sopravvivere ed
evitare lo scioglimento, rafforzando
al contempo i rapporti tra noi e il
gruppo di Sinistra Democratica.
Grazie e un abbraccio». Il trionfo
delle idee. E comunque, per
concludere sulla Finanziaria, vista
dai Verdi o da Sinistra Democratica,
non c’è differenza. I meccanismi
sono gli stessi. E allora vien quasi
da rivalutare la tanto bistrattata
“legge mancia”, quella a volte
giustamente sbeffeggiata dai
giornali perché distribuisce piccoli
finanziamenti a pioggia sul
territorio. Ed è vero, le modalità
sono un po’ losche, non deve nemmeno
passare dall’Aula, se la vedono
quattro big di destra e sinistra in
Commissione, “una fetta a te,
l’altra a me, poi ognuno suddivida
come crede”, e così ci trovi le
centinaia di migliaia di euro
regalate all’ente inutile amico
dell’amico. Ma anche l’aiuto
essenziale all’associazione
meritoria, o il contributo per
risistemare il campanile o la piazza
del paese. Cose concrete, insomma,
se poi qualcuno ci fa la cresta è
tutt’altro discorso. Dal canto mio,
riesco a far passare una sovvenzione
alla onlus “La Prateria” di Paderno
Dugnano, 70mila euro a
un’organizzazione specializzata
nell’ippoterapia per aiutare i
disabili, quei soldi serviranno
anche per la nuova sede. Uno degli
atti da deputato di cui vado più
fiero. |
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CAPITOLO
9 -
LORO VOLANO, TU PAGHI
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E' stata questa storia di Mastella
messo in croce perché aveva usato
l’aereo di Stato per andare al Gran
Premio, in realtà aveva chiesto un
passaggio a Rutelli che a Monza
doveva andarci per consegnare la
coppa ai vincitori della gara. E
insomma, uno scandalone. Ma dell’uso
“allegro” dei voli di Stato, a
Palazzo, sanno tutti. Devi andare in
visita ufficiale all’estero? Se te
la passano, ci unisci anche la tappa
che ti riguarda personalmente. Un
esempio: Pecoraro Scanio ha in
programma un volo in Romania per
l’incontro bilaterale con il
ministro dell’Ambiente di Bucarest.
Ma c’è anche da presenziare alla
trasmissione televisiva di Crozza,
il comico, quello diventato famoso
nella trasmissione di Celentano. Ed
ecco la richiesta, inoltrata
all’Ufficio per i voli di Stato di
governo e umanitari: “Il ministro
dell’Ambiente, On. Alfonso Pecoraro
Scanio, per ottemperare ad impegni
istituzionali, si recherà a Milano,
presso gli studi televisivi di “Crozza
Italia”, per un’intervista relativa
al suo impegno di governo per quanto
riguarda le questioni ambientali”.
Seguono indicazioni su orari e
delegazione, e poi la chiosa: “Non
consentendo gli orari dei voli
commerciali al ministro di
effettuare la missione in questione,
si richiede la concessione di un
volo di Stato”.
Ora, che ci
sia difficoltà a trovare un Roma-
Milano entro le 15 pare difficile,
c’è n’è uno ogni ora o giù di lì. Ma
l’andazzo è questo. E non vorrei
sembrasse che me la prendo sempre
con Pecoraro, tra l’altro l’aereo di
Stato per andare da Crozza nemmeno
gliel’hanno concesso, ma essendo io
deputato dei Verdi è quello che
conosco meglio. Ben inteso, tutti
gli altri han poco da fare i
moralisti: nel 2004, con Berlusconi
al governo, sono stati spesi 52
milioni di euro in voli di Stato, 50
nel 2005, e poi 43 nel 2006, poco
meno di 30 nel 2007. Impressionante,
considerando che agli “aerei blu”
hanno diritto solo il capo dello
Stato, i presidenti delle Camere, il
presidente della Corte
Costituzionale e i membri del
governo. E gli altri? I deputati
“normali”? Ma sì, che anche loro se
la girano alla grande, certo non con
gli aerei di Stato, lì sopra
eventualmente ci scappa qualche
passaggio, à la Mastella. Torniamo
allora alle famose “tesserine”,
quelle che come d’incanto aprono a
noi onorevoli porte serrate per i
comuni mortali. Ho già raccontato
del lasciapassare per parcheggiare
gratis l’auto negli aeroporti di
Linate e Malpensa. E se la macchina
la devi lasciar lì per tutte le
vacanze, bè, nessun problema, ce la
lasci a costo zero. Basta almeno che
sia quella con la targa accreditata.
Ricevo infatti un avviso dal
Direttore relazioni esterne Sea, la
società che gestisce gli aeroporti
milanesi, indirizzato a tutti i
deputati e senatori e parlamentari
europei, che dopo aver sottolineato
come “a volte l’utilizzo della
tessera non corrisponde a nessun
imbarco da parte del titolare della
tessera stessa”, chiude così: “Vi
ricordiamo che la tessera è
strettamente personale, e che il
sistema dopo tre passaggi
consecutivi di lettura della tessera
con targa diversa da quella
segnalata, la disabilita
automaticamente. Sperando che
comprendiate le motivazioni che mi
hanno spinto a scrivere la
presente...”. Comprendiamo. E che
figura.
Naturalmente, la Sea
pensa anche ad alleggerire la
sfiancante attesa prima dell’imbarco
di noi poveri lavoratori
parlamentari: possiamo goderci i
comodi divani delle sale Vip, con
servizio bar gratis, giornali e
riviste gratis, postazioni internet
gratis, eventualmente sale riunioni,
sempre gratis. Non che sia un
privilegio epocale, ma ai
viaggiatori normali la tessera che
dà diritto all’accesso costa 800
euro l’anno, buttali via. D’altro
canto, Alitalia mi comunica che a
Fiumicino la sala Club Freccia Alata
“vedrà raddoppiati i propri spazi e
sarà dotata di nuovi arredi e
maggiori comfort”. Evvài. E i
severissimi controlli di sicurezza
agli imbarchi? Per tutti ma non per
noi, noi si passa da dietro, come
hostess e steward. Se beccano un
viaggiatore che vuol salire
sull’aereo con un paio di
bottiglie di vino, tanto per fare un
esempio, gliele requisiscono. Con i
parlamentari non si azzardano. Poi
ci sono i voli di trasferimento da e
per il Parlamento: come detto, vai
all’agenzia di Montecitorio e fai il
biglietto. Ora, io abito a Milano, i
voli low-cost sono una realtà da
tempo, quasi si paga meno che in
treno. Ma quando ritiri il
tagliandino, c’è stampata anche la
tariffa, che io non pago ma è quella
che va ad incidere sulle casse
statali. E allora, ecco:
Linate-Fiumicino andata e ritorno al
modico costo di euro 625.
Seicentoventicinque euro,
tantissimo. Vabbè: diciamo che anche
in questo modo si cerca di dare una
mano alla malmessa Alitalia. Senza
contare che più la tariffa è alta,
più si ricarica la tessera “Mille
Miglia”, che se accumuli un tot di
punti poi ti regalano il volo per
dove vuoi. E anche questo non fa
schifo. Ecco perché sono preferiti i
biglietti “aperti”: quelli con
andata e ritorno già fissati
costerebbero anche il 75 per cento
in meno. Discorso a parte meritano
le “missioni” organizzate da
commissioni, giunte e comitati vari,
che tra l’altro giustificano il
deputato per l’eventuale assenza
dall’Aula, permettendogli di
incassare la diaria. E guardate, in
questo caso non è che si vuole
necessariamente fare il solito
discorso sul magna magna, “i
deputati fanno finta di lavorare e
invece si fanno le vacanze
all’estero tanto paga lo Stato”. Il
punto è anche un altro: sei
onorevole, e subito ti senti Henry
Kissinger. E per passare alla
storia, o più semplicemente per
guadagnare un po’ di visibilità, ti
prendi in carico casi importanti,
magari diplomaticamente delicati,
senza avere l’autorità né gli
strumenti per risolvere alcunché.
T’improvvisi ministro degli Esteri,
col risultato che rischi di
alimentare illusioni, o addirittura
di fare dei danni. E quindi, c’è
questo Britel Abou Elkassim che è
detenuto in Marocco. Una storia
drammatica: l’imputazione è di
associazione sovversiva, in pratica
è accusato di essere un terrorista
anche e soprattutto per l’attività
che si sospetta abbia svolto in
Italia. Perché Britel è cittadino
italiano, è sposato con un’italiana,
viveva a Bergamo, e i nostri giudici
hanno concluso le indagini definendo
le accuse totalmente insussistenti,
archiviando il caso. Ma lui rimane
in galera in Marocco. A Montecitorio
circola la petizione per chiederne
la grazia al re Mohammed VI, la
firmano in cento, in questi casi la
firma su una petizione non si nega
mai. Magari senza neppure leggerne
il testo, giusto per togliersi dalle
scatole il collega petulante.
S’incaricano di recapitare la
richiesta due rifondaroli, Ezio
Locatelli e Khalil Alì (più noto
come Alì Raschid), e il
sottoscritto.
Si parte,
cinque giorni di missione, con la
moglie di Britel che spera e ci
crede, tra l’altro al re stava per
nascere la prima figlia e in segno
di giubilo erano state annunciate
amnistie e atti di clemenza.
L’ambasciata italiana in Marocco si
mette naturalmente a disposizione:
ambasciatore in persona, poi
funzionari, autisti, interpreti e
tutto il contorno. Per consegnare la
petizione, incontriamo e parliamo
con il ministro di Sua Maestà, che
annuisce ma si vede che neanche ci
ascolta, poi andiamo anche in
carcere ad incontrare Britel, lui ci
ringrazia e piange. Torniamo in
Italia. Nulla si muove, tutto resta
come prima. È passato più di un
anno, Britel è ancora in galera,
speriamo che tra le mura della cella
marocchina non gli abbiano fatto
pagare il clamore provocato dalla
spedizione di tre signor nessuno.
Quel che ci resta è l’insopportabile
impressione di aver alimentato
unicamente la nostra vanità, oltre a
qualche fotografia che ci siamo
scattati a vicenda in abiti
maghrebini e al ricordo del
ricevimento all’ambasciata
organizzato in nostro onore. No, non
siamo Henry Kissinger. E nemmeno
D’Alema.
Meglio ripiegare
sul territorio nazionale. Allora, ci
sono le elezioni comunali a Genova.
Un appuntamento importante, tornata
amministrativa a un anno
dall’elezione di Prodi, per il
centrosinistra il capoluogo ligure è
vetrina nazionale. Ma la situazione
è complicata: Cristina Morelli,
capogruppo dei Verdi in Regione, e
Luca Dall’Orto, assessore comunale
all’Ambiente, i due esponenti di
spicco del partito in Liguria,
avevano celebrato la loro storia
d’amore con un simbolico Pacs a
Roma, in piazza Farnese. Ma adesso
pare siano in lite, la campagna
elettorale rischia di esserne
penalizzata. E non c’è da
meravigliarsi né scandalizzarsi, la
politica è condizionata anche da
vicende come questa, e molto più
spesso di quanto si pensi. Comunque,
il partito mi invia quasi fossi
commissario nazionale, tra le altre
cose devo anche fare da paciere. Mi
trasferisco a casa di Cristina per
qualche settimana, lei è gentile e
ospitale, non fosse per i suoi
7-gatti-7 che, lo dico da amante
degli animali, alla lunga sono un
po’ un tormento, te li trovi
dappertutto, «e guarda Bibì, e che
simpatica Mimì, e vieni qui Cicì»,
grande sensibilità ma insomma la
casa è tutta un pelo, e io sono
anche un po’ allergico. E poi lei è
vegetariana, al ristorante mi fa dei
gran cazziatoni quando ordino carne
e pesce, «sei un assassino», che ci
sono volte che penso a Luca e non so
perché ma gli sono vicino. Alla
fine, la coppia scoppiata si
dimostra responsabile, mettono da
parte i contrasti domestici e
affrontano da persone civili la
campagna elettorale.
Nel
frattempo, devo anche volare a Roma
per parlare con Pannella e
contrattare l’apparentamento in loco
con i Radicali, mi sorbisco ore di
comizio, Marcone non smette di
parlare nemmeno se gli spari, fatto
sta che l’accordo si fa, entrano
nelle nostre liste. Alla fine, tutto
va come deve: a Genova vince la
candidata sostenuta anche dai Verdi.
Obiettivo raggiunto. Già che son lì,
mi metto a girare e vado a vedere di
persona situazioni che m’interessa
affrontare, chissà mai che possa
combinare qualcosa “per la gente”,
come si dice. C’è la questione della
discarica di Monte Scarpino, in
provincia di Genova, pare vogliano
piazzarci un inceneritore e i
residenti sono parecchio arrabbiati.
In effetti, mi sembra che il
problema esista, le persone mi
accompagnano e spiegano, nei pressi
delle scuole passano decine di
camion al giorno, la gente s’ammala
e muore. Preparo un’interrogazione
parlamentare che avrei presentato al
ministro, il “mio” ministro, nel
senso che è dei Verdi. Niente da
fare: il presidente della Camera
Bertinotti la dichiara
inammissibile. Certamente sarò stato
io a formularla non nella maniera
burocraticamente corretta, resta il
fatto che la sensazione d’inutilità
cresce in me ogni giorno di più. Poi
c’è il Parco del Tigullio. Vedo che
al partito interessa
quest’eventualità di creare un parco
marino e terrestre del Levante,
esteso fino a Moneglia e
comprendente anche quello di
Portofino. M’incarico io di portare
avanti la questione, preannuncio una
proposta parlamentare. E allora
riunioni su riunioni, con il
paradosso che lo stesso Consiglio
Provinciale ulivista, Verdi
compresi, dibatte e boccia l’idea,
lamentandosi perché «è caduta
dall’alto». Ma il progetto non è mai
stato nemmeno presentato.
Un’altra marea di parole sul nulla.
Infine, questa storia del leccio,
che poi è un albero tipo quercia. Un
incubo. Spiego: vado con Pecoraro a
Sestri Levante, siamo in campagna
elettorale e bisogna dar ascolto e
promettere qualcosa a tutti. Il
sindaco ci racconta di questo
misterioso delitto, ignoti hanno
avvelenato il leccio secolare che
domina la passeggiata a mare. Vane
si sono rivelate tutte le cure
straordinarie, gli esperti che
l’hanno visitato hanno emesso la
diagnosi che è una condanna:
signori, abbiamo fatto di tutto, ma
purtroppo bisogna abbatterlo. Per la
cittadina è una tragedia, il sindaco
ci chiede di far qualcosa: «Qui ci
vuole un altro leccio, ministro,
onorevole, pensateci voi». La
vicenda è simbolica, rimbalza sulla
stampa locale. Pecoraro dice che sì,
un nuovo leccio si può trovare, se
ne interesserà personalmente. Poi ce
ne andiamo e mi passa la palla, «di
’sta storia occupatene tu». Da
allora – e lo dico anche ai
cittadini di Sestri, in senso
positivo – il sindaco non molla più
la presa. Telefona, scrive, mi invia
anche un’e-mail con le
caratteristiche che deve avere il
nuovo albero – “asse diritto dalla
base alla punta, fusto sano senza
ferite, circonferenza del fusto a m.
1 da terra cm. 60/70, apparato
radicale che abbia subito prima che
la pianta sia stata messa in vaso
almeno tre trapianti di cui l’ultimo
da non più di tre anni”. Mesi di
persecuzione, e arrivo a pensare
che, porcamiseria, potrebbe anche
pagarselo il Comune, il leccio. Ma
poi mi dico che ha ragione lui,
d’altronde gli era stato promesso.
La realtà è che, per noi deputati, è
più utile pontificare sui massimi
sistemi che far piantare un albero
in riva al mare. E poi, accidenti,
quante promesse gettate al vento. |
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CAPITOLO
10 -
LA CARICA DEI RACCOMANDATI
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E allora, guardate, qualcuno mi darà
del patetico, altri del paraculo
ipocrita, ma sono stufo. Stufo delle
continue richieste di segnalazioni e
raccomandazioni, perché c’è questo
mito che uno diventa deputato e
magari viene visto in tivù con il
ministro e quindi è entrato nella
stanza dei bottoni e «se ci puoi
mettere una buona parola, per
favore». Ogni settimana ne arrivano
a decine. C’è l’esperto di fitness,
gli han detto che tu sei uomo di
televisione, tra l’altro ti sei
interessato anche di Rai, e allora
ti chiede se riesci a infilarlo in
una trasmissione, e siccome è amico
dell’amico dell’amico ti informi e
ottieni che appaia per una settimana
nel programma del mattino per dare
consigli su come buttar giù pancetta
e cellulite. La guardia giurata che
s’intende di fotovoltaico perché
«quella del sole è l’energia del
futuro», e gli rispondi che sì, ne
sei convinto anche tu, e subito dopo
ti domanda di fare il consulente per
il tal progetto che gli hanno detto
sta per partire. C’è il funzionario
che t’implora di poter incontrare
tizio o caio, «e se mi presenti tu è
tutta un’altra cosa», o l’agente di
polizia che si fa un mazzo così da
una vita e adesso vorrebbe
avvicinarsi a casa. E a proposito di
avvicinamenti, non Papponi di Stato
Tutto 28-03-2008 18:46 Pagina 103
potete immaginare quanti maestri e
insegnanti e professori, io quando
posso prendo e passo al ministero
dell’Istruzione, poi vedano loro. E
la Commissione Cultura si occupa
anche delle Poste, e c’è questa
faccenda dei francobolli speciali,
commemorativi, non so bene se ci sia
sotto anche un business, non credo,
fatto sta che ti domandano di
spingere molte proposte. Per non
parlare dei favori da fare a
colleghi e superiori, tipo che il
ministro ha un conoscente con
velleità da scrittore, e questo
scrittore è convinto che un
affermato regista di Hollywood abbia
copiato l’idea del suo libro per
farci un film, e il ministro ti
chiede di sollevare il caso, «mi fai
un’interrogazione?», e tu gliela
fai, l’interrogazione, e chiedi al
governo “se sia a conoscenza del
caso in oggetto e quali misure
intenda eventualmente adottare per
garantire la tutela dei diritti
d’autore”, e ci organizzi
addirittura una conferenza stampa.
Oppure c’è il “question time”, e
abbiamo già detto che viene
trasmesso in diretta tivù, e per
bilanciare gli interventi a lui
contrari al ministro farebbe piacere
un intervento più accondiscendente,
e pronti, eccoti l’intervento, e lui
prende la parola e inizia la
risposta con un «...ringrazio
l’interrogante e l’intero gruppo dei
Verdi, perché questa è un’occasione
per fare chiarezza ed
annunciare...». E dopo ti senti uno
scemo.
Non ne posso più di
questa sensazione d’inutilità e
d’impotenza, di essere additato a
parassita e sapere che il paragone
sarà anche antipatico e demagogico e
populista, ma non così lontano dalla
realtà. Di vedere che certo,
ministri e capoccia di partito
incidono eccome sulla realtà, e non
è che siano tutti stronzi,
intendiamoci, ma tu non sei niente,
non conti niente, e intorno hai
tanti e tanti e tanti che non
contano niente, tra Camera e Senato
siamo quasi mille, però noi siamo
“onorevoli deputati”, c’è scritto
anche sulla tesserina, ed è questo
ciò che importa. E per sentirti
utile t’inventi qualche baracconata,
ti travesti da Babbo Natale e ti fai
assoldare in nero e ti piazzi
davanti al centro commerciale, e
gonfi i palloncini, vai dai bambini
e li convinci a fare la foto, fai il
simpatico con i clienti. L’ho fatto,
ho lavorato dieci ore per 45 euro
senza uno straccio di fattura né
contratto, poi mi sono rivelato. E
almeno grazie a me, alla mia
baracconata, quel centro commerciale
li ha poi messi in regola, quei
ragazzi che fanno i Babbi Natale e
quante volte ai bambini che gli
tirano la barba vorrebbero prenderli
a calci. Una goccia nel mare, ma
almeno qualcosa. Molto meglio di
quando ho sollevato la discussione
sul canone Rai, risultato zero.
Oppure la questione dei cd, che con
questa storia della musica
scaricabile dal computer e della
pirateria se ne vendono sempre meno,
le case discografiche licenziano di
continuo, e nonostante questo si
continua a mantenere l’Iva al 20 per
cento, mentre per esempio sui libri
è al 4, e comunque parole inutili,
m’ascolta nessuno. Chissà, forse
sono io che non sono capace.
D’altronde, mi rendo conto che parlo
più dei problemi cui tengo quando
Canale 5 m’invita in tivù a “Buona
Domenica” piuttosto che in
Parlamento. E non ne posso più di
vedere quanto siamo micragnosi.
Benefit, privilegi, sconti, ma
quando c’è da aprire il portafogli
per aiutare qualcuno, guardiamo da
un’altra parte fischiettando
distratti. Io sono quello che,
insieme con Maurizio Bernardo di
Forza Italia, ha organizzato la
colletta tra parlamentari per
aiutare le famiglie degli operai
morti nella tragedia della Thyssen
Krupp. Ricordate? L’incendio nella
fabbrica di Torino, sette poveracci
uccisi dal fuoco, la commozione
dell’intero Paese, e tutti a
sbraitare, «basta, è una vergogna,
adesso non abbandoniamoli!».
Bernardo e io crediamo sia giusto
che anche il Palazzo dia un segno,
chiediamo a deputati e senatori di
versare dei soldi, non so, metà di
una giornata, sarebbero 250 euro a
testa. E questa sì che è una cosa
patetica, in quindici giorni
raccogliamo in tutto 1.300 euro,
meno di due euro a parlamentare, c’è
anche chi ci rinfaccia di voler
discriminare i morti sul lavoro tra
quelli di serie A e altri di serie
B, e noi a spiegargli che vuole
essere un atto simbolico, a volte
servono, e loro niente. I giornali
ne parlano scandalizzati, e dopo
altri quindici giorni la media
“sale” a 9 euro cadauno. Bernardo e
io ci arrabbiamo, minacciamo di
rendere pubblici nomi e versamenti,
e la deputata del Pd Donata Lenzi va
su tutte le furie, dice che siamo
scorretti, che lei la donazione l’ha
fatta ma attraverso un altro conto
corrente, che «tutto ciò ottiene il
risultato di un’ulteriore perdita di
legittimità del Parlamento» [più di
così?], e poi si appella a
Bertinotti affinché difenda la
dignità della Camera. A parte
questo, di fronte all’eventualità
dello sputtanamento pubblico
qualcosa si muove, ma neanche tanto:
siamo arrivati a raccogliere 42mila
euro, compresa la donazione del
fondo di solidarietà dei dipendenti
della Camera, un sottosegretario ci
ha messo 50 euro. Roba da
vergognarsi.
E non so più
nemmeno quanto guadagno. C’è lo
stipendio base, poi l’indennità o
come cavolo si chiama, i rimborsi di
trasporto, quelli per le telefonate,
tutte le coperture sanitarie
possibili e immaginabili, ci
rimborsano persino il famoso
“ticket”, e poi mangi spendendo
niente, persino il gruppo
parlamentare ti versa dei soldi non
so nemmeno per che cosa, ed è anche
esploso il caso del ritocco all’insù
della busta paga, «perché i senatori
l’hanno avuto e noi no». Sulla
questione si sa già tutto, inutile
dilungarsi, ma non posso fare a meno
di pensare alle vecchiette e sciure
Maria delle mie trasmissioni, alla
gente che vive con una pensione
minima di 500 euro al mese, e noi -
che ci sono mesi in cui arriviamo a
incassarne intorno ai 15mila, a
gennaio di quest’anno per via di
rimborsi e rimborsini e anticipi
addirittura 20mila - noi 500 euro li
possiamo portare a casa in un solo
giorno. E fanculo a chi dice che
questa è retorica, lo sarà anche, ma
fatevi due conti e poi ne parliamo.
Tra l’altro, questa disgraziata
legislatura è durata talmente poco
da non far scattare la generosa
pensione riservata ai parlamentari.
A parte che voglio vedere se sarà
davvero così, pochi sanno che anche
dopo soli due anni di Montecitorio è
possibile incassare una sorta di
lauta liquidazione, che non si
chiama così ma va sotto le diciture
di “assegno di fine mandato” e
“restituzione delle quote
previdenziali versate”. Dal canto
mio, me ne torno a casa con un
bell’assegno di 41.808,44 euro.
L’ultimo regalo pagato dagli
italiani. Perché sono stufo, l’ho
già detto, non ne posso più. Basta,
il giro sulla giostra l’ho fatto, ho
mangiato a sbafo con tutti gli altri
e perciò non mi ergo certo a
paladino. Ma adesso scendo. Non mi
ricandido. Adieu all’ufficio che non
uso, alle inutili chiacchierate in
Commissione, ai miei voti decisi da
un altro. Saluti alle associazioni
di parlamentari, ai cocktail di
benvenuto, alle missioni
istituzional-turistiche. Lo
preannuncio con un sms al segretario
del mio partito, Pecoraro Scanio,
poi ci sentiamo al telefono e
aggiungo che non ho interesse
nemmeno ad accettare eventuali
incarichi “laterali”, non so, la
poltrona in qualche municipalizzata
o qualche altro ruolo “di prestigio”
con ottimo stipendio annesso, vale a
dire il “ringraziamento” che viene
in genere elargito agli ex
parlamentari. E non perché sia un
eroe, l’ho già detto. È che non me
la sento. Torno, se mi vorranno, a
fare il mio mestiere, il
giornalista, l’agitatore televisivo.
Vedremo.
Lui, Pecoraro, dopo
avermi ascoltato, prende atto, «come
vuoi, ma vienimi a trovare al
ministero». E però mi chiede un
ultimo sforzo: di scrivere una
lettera ai Verdi, per ringraziarli
della grande opportunità e della
bella esperienza, «restiamo
d’accordo così?». No, io la lettera
non gliela scrivo. Chi ha dato a
dato, chi ha avuto ha avuto, canta
la canzone: chiudiamola qui e basta.
Uso invece queste ultime righe per
salutarlo, a lui e al Parlamento:
addio, a mai più rivederci. Ah,
un’ultima cosa: onorevole sarà lei.
Pubblicato da «Libero» agosto
2011 |
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