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LUCI ED OMBRE |
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Premesso |
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Che non si può definire
univocamente la figura del partigiano poiché
sotto questa definizione venivano
raggruppati oppositori, idealisti,
imboscati, ricercati, fanatici. |
Premesso |
Che mio padre è stato partigiano
antifascista ed ha subito il confino
politico. |
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In questa pagina ho raccolto
alcune
testimonianze sulla parte più NERA della
lotta partigiana. |
Questo perché della parte
BIANCA ne abbiamo letto e sentito parlare in
abbondanza ed io preferisco cercare la mia
verità. |
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La resistenza, non è mai esistita
è una invenzione dei comunisti. |
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Indro Montanelli |
Reggio Emilia, 16 ottobre 2006. |
Gianpaolo Pansa presenta il libro "La grande
bugia", un libro sulle parte torbida della
resistenza. |
Una marmaglia di balordi dei centri sociale
hanno occupato il locale coni soliti slogan,
volantini e bandiere dando conferma che il
libro di Pansa non è che il preludio di un
sistema di sinistra che continua ad
imperare. |
Per ribadire il loro sistema democratico,
hanno tentato di impedire a Pansa di
parlare, cantando Bella ciao. |
Anche alcuni ex partigiani presenti si sono
ribellati a questo modi incivili che non li
rappresentano. |
Logicamente è finita a pugni, insulti e
minacce nel migliore sistema comunista, fino
all'arrivo dei Carabinieri. |
Il giorno dopo Giorgio Bocca ha invocato una
legge per vietare di parlare male della
Resistenza. Forse avrebbe fatto meglio a
contestare gli episodi citati. Voler vietare
le tesi altrui senza alcun confronto è
tipico di un Comitato Centrale di infausta
memoria. |
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RESISTENZA OGGI |
Anche quest'anno
2009 sta per andare in onda la festa
del 25 aprile. E sarà ancora una
sguaiata manifestazione che non
intende assolutamente promuovere una
conciliazione nazionale ma solo la
propaganda comunista. Prova di
questo intento sono i manifesti
affissi a Genova.
Come si vede nella prima foto i
partigiani, riuniti intorno ad un
tavolo, sono in compagnia di una
boma e di una pistola. Niente di
strano, visto il compito che
svolgevano. Però il manifesto
affisso per le strade riporta le
seconda foto, dove si vede
chiaramente che mancano bomba e
pistola. |
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FOTO DI UNA
RIUNIONE PARTIGIANA SULL'APPENNINO
LIGURE |
FOTO UTILIZZATA
SUI MANIFESTI DELLA REGIONE LIGURIA
PER IL 25 APRILE |
Vogliono forse far
credere che anche la Resistenza è
stata fatto in nome del buonismo
oggi dilagante a sinistra? E che non
veniva fatto uso di armi ma solo di
buone parole? |
La risposta è
un'altra: Le armi della foto, una
granata tipo Mk2 e una
semiautomatica da ufficiali, erano
quelle in dotazione all’esercito
americano che liberò l’Italia. E
questo avrebbe smascherato coloro
che hanno sempre raccontato che la
Liguria era stata liberata dalla
Resistenza senza l’inutile aiuto
alleato. ANCORA MENZOGNE! |
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QUANTA VIOLENZA IN NOME DELLA
RESISTENZA |
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Dopo i libri di Pansa ed alcuni film sulla
parte oscura della Resistenza, sembra che il
muro di omertà e connivenza si sia
cominciato a sgretolare.
Avremo anche in Italia la caduta del muro
come a Berlino?
Il partigiano Giuseppe Bonzio di Milano ha
trovato il coraggio, dopo 64 anni dai fatti,
di confessare ciò che ha visto con i suoi
occhi e lo ha scritto al Giornale:
«Ho 86 anni e mi scusi se sono costretto a
scriverle a mano: non riesco più a usare la
macchina per scrivere.
Sono stato partigiano. Avevo 22 anni.
Mi trovai in difficoltà con gli altri
partigiani, quasi tutti reduci di guerra. Io
ero il più giovane.
Gli altri erano tutti sui trent'anni e anche
più. Quasi tutti erano stati soldati nei
vari fronti della spaventosa Seconda guerra
mondiale. Io avevo ottenuto l'esonero dal
servizio militare perché dovevo lavorare per
alimentare i miei sette fratelli. Mio padre
era morto d'infarto.
Finita la guerra ci fu un'orgia tremenda con
la caccia al fascista.
Non soltanto venivano maltrattati quelli che
avevano aderito al fascismo, ma tanti altri,
che con il fascismo non avevano mai avuto
nulla a che fare.
Fu un'orgia tremenda, ripeto. Ricordo alcuni
fatti.
Un partigiano (però in quel momento si
facevano chiamare partigiani anche molte
persone malfamate: ladri, provocatori, gente
che viveva di espedienti, furto soprattutto)
andò nella casa di un impiegato comunale e
volle che quella casa diventasse sua.
Costrinse il malcapitato a firmare un foglio
nel quale era detto che quella casa la
cedeva al partigiano e pretese che la
famiglia dell'impiegato uscisse di casa,
perché quella casa era sua.
Questo è uno dei tanti casi di quei giorni
maledetti.
Ho visto un carcere strapieno di gente
(uomini, donne e bambini) arrestata dai
partigiani perché fascista.
Ricordo una donna che piangendo mi disse che
lei non si era mai occupata di politica.
L'avevano arrestata perché non voleva cedere
la sua casa ad un partigiano.
E poi altri fatti dolorosi, che mi
costrinsero a ritirarmi.
In quelle settimane in cui ero stato
partigiano non ho visto altro che violenze
tremende, appropriazioni indebite, furti,
ricatti.
Gli unici a comportarsi bene erano i reduci
di guerra trasformatisi in partigiani. Gli
altri erano soltanto ladri.
Ora mi domando: io non sono in grado di fare
lunghi tragitti, cammino con il bastone. E
nel 1945 avevo 22 anni.
Come mai esistono oggi baldanzosi partigiani
che sfilano baldanzosi? Hanno la mia età?
E com'è possibile che l'associazione
partigiana abbia sempre nuovi iscritti?
E la Quinta armata inglese e l'Ottava armata
americana, che dalla Sicilia al Brennero,
hanno invaso l'Italia liberandola da un
regime ormai finito, non sono esistite? Solo
le bande di partigiani hanno liberato
l'Italia?»
Commento: Le
associazioni partigiane e le istituzioni
hanno permesso che questi "partigiani"
(ladri, provocatori, gente che viveva di
espedienti, furto soprattutto) si
confondessero con coloro che hanno
onestamente contribuito alla liberazione
dell'Italia.
E purtroppo bisogna constatare che le cose
non sono poi cambiate di molto.
Chi ha visto la manifestazione di Milano del
25 aprile si è potuto rendere conto che
nella attuale rappresentanza della
Resistenza convivono ancora queste
ambiguità.
HO RICEVUTO QUESTA TESTIMONIANZA: Dalle mie
parti i partigiani erano renitenti alla
leva, disertori e questi erano i meno
facinorosi. Gli altri erano ladri, assassini
evasi dalle carceri, ergastolani,
delinquenti comuni, tutti nascosti nelle
nostre montagne dove gozzovigliavano
rubacchiando derrate ai poveri abitanti di
quelle terre. Quando arrivarono gli
americani a liberarci, i "valorosi"
partigiani uscirono dai loro nascondigli, si
misero le loro medaglie alzarono le loro
bandiere rosse e ci raccontarono che erano
stati loro a liberare l'Italia e pretesero
"tutti" di essere assunti negli enti di
stato anche se erano analfabeti . Altro che
tessera del fascio. Quei figuri erano
considerati, da i miei concittadini, la
peggiore feccia della città. |
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da
un altro punto di vista |
VIA RASELLA: EROISMO O
TERRORISMO?
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Per chi non
fosse a conoscenza dei fatti che si svolsero
in Via Rasella, riporto una ricostruzione
che ritengo sia la più vicina alla realtà. |
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Santuario di Pietralba.
Siamo quasi sul confine tra Alto Adige e
Trentino. La stanza degli ex voto ha le
pareti tappezzate di quadri e quadretti:
santi, madonne, ma anche scene di incidenti,
cadute, immagini di ammalati con le braccia
fasciate o infilati in un letto. E poi
stampelle, occhiali, caschi da motociclista.
Un quadretto circondato di nero riporta un
lungo elenco di nomi e date di nascita.
Sembra sottrarsi in qualche maniera alla
logica degli altri ex voto. Voglio dire,
solitamente si ringrazia il Cielo per una
grazia ricevuta. Quel quadretto, invece,
riporta un elenco di trentadue persone
morte. A Roma, il 23 marzo del 1944. |
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Questa storia comincia
dopo l'armistizio dell'8 settembre. L'Italia
"scarica" a sorpresa la Germania. Ma per i
tedeschi il segreto dell'armistizio è solo
il segreto di Pulcinella, anzi "Das pfeifen
die Spatzen schon vom Dach", come dicono
loro. Così già due giorni dopo viene
costituito l'Alpenvorland, il Trentino e
l'Alto Adige vengono in tutto e per tutto
assoggettati al potere nazista. Tra le altre
cose, si presenta la necessità di costituire
dei corpi di polizia per il mantenimento
dell'ordine pubblico. Vengono così formati
il Corpo di Sicurezza Trentino, il suo
corrispondente altoatesino, il S.o.d., e i
Polizeiregiment. Italiani che combattono per
i tedeschi. Tanti corrono ad arruolarsi
perché convinti di scongiurare così il
pericolo di essere mandati al fronte, altri
perché convinti sostenitori del nazismo,
altri solamente perché costretti a prendere
atto della propria volontarietà.
L'undicesima compagnia del Polizeiregiment
Bozen è formata da 156 uomini. Quasi tutti
contadini o artigiani della valli dell'Alto
Adige; hanno attorno ai quarant'anni e sono
comandati dal tenente Wolgasth, un prussiano
tutto d'un pezzo, una carogna secondo i suoi
soldati che gli affibbiano il nomignolo di "Vollgas",
Tuttogas, perché si diverte a farli
schiattare di fatica. Il battaglione lo
dirige un boemo, tale Dovek. Sì, perchè i
posti di comando sono preclusi agli
altoatesini, che in fondo – piaccia o no –
sono pure italiani. Dovek e Tuttogas non
devono avere una grande opinione dei loro
soldati; l'appellativo più gentile che
riservano alla truppa è "Holzkoepfe", teste
di legno. Non hanno digerito di essere stati
assegnati a quel battaglione, a quelle
schiene curve abituate a salire su per i
sentieri della Val Venosta e dei passi
dolomitici, a quella gente di montagna per
natura così pacifica e poco incline alla
marzialità militaresca. |
Per questo
l'addestramento è particolarmente duro.
Bolzano e poi Colle Isarco. E da sopportare
non ci sono solo la disciplina e la fatica
fisica, ma pure l'umiliazione psicologica
messa in atto dai comandi. "Traditori",
"maiali", "bastardi" e altre della stessa
marca. A quelle reclute non viene perdonato
il fatto di essere così poco tedesche, di
non sapere addirittura, come nel caso dei
ladini, parlare il tedesco.
Loro, le reclute, mal sopportano. In fondo, a
quanto ne possono sapere, tutto quello
assomiglia tanto ad un secondo servizio
militare, fatto con una divisa diversa, per
una nazione diversa, con tanto di giuramento
che viene pronunciato il 28 gennaio. Pochi
giorni dopo il Battaglione è trasferito a
Roma, con mansioni di sorveglianza.
Per chi sperava di rimanere in Alto Adige
non è certo una bella notizia. Anche perché
Roma, in quei giorni, dovrebbe essere, in
teoria, una "Città Aperta", cioé immune ad
ogni tipo di combattimento, ma di fatto è il
teatro di un braccio di ferro tra i nazisti
e le bande partigiane. Pare che i muri della
città siano tappezzati di manifesti
tedeschi. Vi si può leggere una frase
terribile, ma molto, molto chiara, che non
può lasciare spazio agli equivoci: ogni
aggressione contro i militari tedeschi da
parte di civili sarà punita con dieci
vittime italiane per ogni vittima tedesca.
Il Polizeiregiment Bozen viene acquartierato
nelle soffitte del Viminale. Da lì, tutte le
mattine, l'undicesima compagnia si reca
marciando al Foro Mussolini, per svolgere le
esercitazioni. Dovek, al seguito in
automobile, non si accontenta di esporre le
"teste di legno" agli attacchi partigiani.
Pretende che si facciano sentire, che
cantino come tanti galletti pettoruti, che
si mostrino entusiasti di servire il Reich.
Come delle vere esse-esse. |
*** |
Ci sono giorni che
nascono già gonfi di presentimenti, pieni di
segni; tanto che già al mattino ti convinci
di aver capito cosa accadrà di lì fino a
sera. Come quei pessimi film in cui si
intuisce da subito che fine farà quell'attore,
dato che si porta scritto la parola "morte"
sulla fronte.
Il 23 marzo 1944 è un giorno speciale.
Ricorre il venticinquesimo della fondazione
dei Fasci di Combattimento, antesignani del
fascismo. In città è prevista una
manifestazione. La si farà al chiuso, in un
teatro, per motivi di sicurezza. I nazisti
temono attentati dimostrativi che spingano
la popolazione romana ad insorgere.
Anche Giorgio Amendola conosce l'importanza
di quella ricorrenza. Il futuro deputato
comunista è a capo dei Gruppi di Azione
Patriottica nella capitale, i Gap, e li ha
già incrociati questi militari un po' curvi,
così poco tedeschi, che cantano come
deficienti per le strade di Roma. Sì, li ha
visti vicino a Piazza di Spagna, recandosi
al nascondiglio di Alcide Degasperi.
Amendola ordina ai Gap di studiare un piano
per attaccare quella Compagnia.
I soldati dell'undicesima sono contadini che
di tattica e strategia sanno ben poco. Per
loro è già stato abbastanza traumatico
passare dai prati della Val Badia, alla
soffitta del Viminale. Però, qualcosa
riescono a notarla. Le guardie sono
raddoppiate, le strade di Roma al contrario
degli altri giorni sono praticamente vuote.
E poi i sottufficiali, e anche Tuttogas e
gli altri, vengono convocati a rapporto, in
cima alla compagnia, mentre, con due strane
ore di ritardo, l'ultima marcia è già
cominciata.
In mezzo a questi inquietanti segnali,
l'undicesima si avvicina a Via Rasella. E'
strano, ma neppure Dovek sembra lo stesso.
Pare agitato, continua a fare su e giù con
l'automobile. E non li fa cantare. Anzi, sì.
Sentilo adesso come urla: "Ein Lied!
Schweine!". |
I plotoni della compagnia
sono quattro. La bomba esplode mentre è
appena transitato il secondo. Dodici chili
di tritolo pressati in un contenitore di
ghisa, a cui sono aggiunti sei chili di
esplosivo e pezzi sfusi di ferro.
Dicono che in quel momento Alcide Degasperi
fosse in compagnia di Amendola. Ad un certo
punto la forte esplosione fa tremare i
vetri. Amendola dice: "Sentito che botto?!".
Degasperi risponde: "Eh, voi comunisti, una
ne pensate e cento ne fate". Sembra un
dialogo tra il divertito e il leggero.
A poche centinaia di metri, in Via Rasella,
di divertente non c'è proprio nulla. A terra
rimangono trentadue soldati, alcuni dei
quali orrendamente mutilati. Ci sono alcuni
morti civili, "effetti collaterali" li
chiameremmo oggi. Tra loro un ragazzo di
quattordici anni.
Il resto della compagnia sbanda. Com'è
comprensibile c'è una gran confusione, urla,
sangue, panico, paura. Anche perché non c'è
un nemico contro il quale aprire il fuoco.
Il nemico è nascosto, fuggito,
volatilizzato. Ha tirato il sasso e ha
nascosto la mano. I soldati allora dirigono
l'attenzione verso l'alto, alle finestre dei
palazzi di Via Rasella. La bomba deve essere
arrivata da lì. Non c'è altra spiegazione.
Un vecchio affacciatosi viene freddato da un
militare. Dovek è sconvolto, corre fra i
morti smembrati e i feriti urlando come un
pazzo: "Correte, maiali, correte!"
Il tenente Tuttogas, invece, mantiene
disumanamente la calma e aiuta i feriti a
salire sulle ambulanze. In ospedale farà
loro un incredibile regalo, un dono da vera
star nazista: una sua foto con dedica.
Alla sera, Dovek irrompe come una furia
nelle camerate del Viminale. Vuole che siano
quei "maiali" a vendicare i compagni
ammazzati dai terroristi. Urla, si sbraccia,
scalpita come un cavallo. Nessuno fiata. C'è
troppo dolore in quella soffitta. Dolore per
i compagni morti e, più che mai, nostalgia
di casa. I soldati rifiutano di eseguire
l'ordine. Franz, Peter, Toni e gli altri
sono cattolici. Proprio loro dovrebbero
farlo? Loro che quando stavano a Bolzano e
venivano trovati nelle chiese erano
obbligati a tornare in caserma sulle
ginocchia? |
I soldati caduti in Via
Rasella trovano sepoltura in un anonimo
prato, su Monte Mario. Verranno poi
trasferiti nel cimitero di Pomezia. Nessuno
chiederà mai di poterli piangere. |
*** |
Al Santuario della
Madonna di Pietralba, fino a qualche anno
fa, si recavano in pellegrinaggio i
sopravvissuti della strage. Si trovavano
davanti a quel quadretto circondato di nero,
con i nomi dei compagni uccisi, e pregavano
in silenzio. Un elenco di morti in mezzo a
tanti ringraziamenti per una morte scampata
soltanto. Perché? Forse perché per quei
montanari dalla schiena curva, per quei
ragazzi contagiati dalla follia della guerra
non ci saranno mai discorsi, monumenti o
giornate della memoria. Al massimo un
quadretto circondato di nero, un elenco e
una data: 23 marzo 1944. |
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Soldati del Polizeiregiment
Bozen |
QUANDO FINISCE UNA GUERRA?
Qui finisce la storia dell'undicesima
Compagnia del terzo battaglione del
Polizeiregiment Bozen, dei soldati tedeschi
meno tedeschi di tutta la Seconda Guerra
mondiale. Qui finisce il racconto di quello
che Norberto Bobbio definì il più grande
errore della Resistenza. O meglio. Qui ha
deciso di farlo finire chi scrive.
Perché quando ci si occupa di storia
contemporanea in questo Paese, comunque si
espongano i fatti, è impossibile sottrarsi
alle critiche; capita di prendersi del
cretino solo perché si cerca di narrare
seguendo la propria coscienza; succede di
sentirsi rivolgere accuse infamanti solo
perché si è convinti che il bene e il male
non possono stare mai da una parte sola.
Tanto vale seguire il proprio intento fino
in fondo: raccontare la storia di quei
soldati senza nominare gli autori della
strage, né scrivere della tremenda
rappresaglia che ne seguì. Si sappia solo
una cosa. Le conseguenze di quello che
accadde in Italia in quegli anni le stiamo
pagando ancora oggi, in questo strano Paese
in cui se non sei di destra, "ovviamente"
sei di sinistra e se non sei né di destra né
di sinistra e nemmeno di centro non sei
nemmeno un uomo.
No. Nel racconto non ci sono giudizi, c'è
solo la vicenda di questi poveri diavoli,
vittime di un conflitto spaventoso, di una
guerra civile che, cambiando più volte
forma, ma mantenendo intatta la sostanza, è
riuscita ad arrivare fino ai giorni nostri.
("Trentino", martedì 23 marzo 2004) |
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I MARTIRI DECORATI
DOPO 65 ANNI
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Medaglia d'oro ai 12 carabinieri
trucidati dai
partigiani
rossi in Friuli
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Ci sono voluti 64 anni per rendere onore
a 12 carabinieri orribilmente seviziati,
trucidati e fatti a pezzi dai partigiani del
maresciallo Tito. I tagliagole del
IX
Corpus sloveno che nel 1944 avevano sotto il
loro comando la brigata Garibaldi Natisone.
Partigiani «rossi»
del Nord Est d'Italia che il
Quirinale, alla vigilia del 25
Aprile, continua a mettere sullo
stesso piano degli altri combattenti
della Resistenza. Ma è proprio il
presidente Giorgio Napolitano che il
27 marzo ha firmato, senza clamore,
l'assegnazione di 12 medaglie d'oro
al valore civile ai carabinieri
dimenticati.
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Dino Perpignano |
Primo Armenici |
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Per mezzo secolo il
loro sacrifìcio era rimasto volutamente
celato. Morti di serie B, della parte
sbagliata, che facevano solo il loro dovere
presidiando una centrale elettrica a Bretto
vicino a Tarvisio, provincia di Udine. Non
solo: uno dei capi del commando di
carnefici, Alojz Hrovat, residente in
Slovenia, dopo la guerra ha ricevuto la
pensione dall'Inps grazie alle sue gesta
partigiane. Solo nel 2000 i vertici militari
hanno cominciato a rompere il velo andando a
commemorare i 12 carabinieri nei luoghi
dell'eccidio. Grazie alla formidabile
mobilitazione di Arrigo Varano, presidente
dell'Associazione dei carabinieri in congedo
di Brescia, il massacro celato è
tornato alla luce. «Dopo 64 anni viene
finalmente reso onore a queste vittime per
troppo tempo dimenticate». Il deputato del
Pdl Adriano Parali, sindaco di Brescia è
stato il primo in Parlamento a chiedere che
venga riconosciuto il loro sacrifìcio. «Si è
trattato di un atto di bestiale criminalità,
non di guerra. Per questo le medaglie d'oro
sono un doveroso encomio a quei ragazzi
morti per l'Italia» spiega Parali al
Giornale. Il 23 marzo 1944 una banda del
LX Corpus sloveno sorprese nel sonno i
carabinieri vicino alla cave del Predil. Li
costrinse ad una marcia della morte carichi
come muli di rifornimenti e munizioni fino
all'altopiano di Baia. «Rinchiusi in uno stavolo gli fu preparato
per pranzo un pastone, nel quale venne
versato sale inglese e soda caustica - ha
ricostruito Marco Pirina fondatore del
centro di ricerche storiche
Silentes Loquimur di
Pordenone.
Affamati e stanchi i poveri carabinieri si
avventarono sul cibo, ma dopo pochi minuti
furono colti dai sintomi di un
avvelenamento. Rantolanti per i bruciori
della soda caustica e con le bocche piene di
bave furono trascinati e condotti nella
malga principale». La mattanza di malga
Baia, descritta anche negli atti di
un'inchiesta del 2001 della procura militare
di Padova, è terribile. A tal punto che il
magistrato per le indagini preliminari la
descrive «come uno dei più gravi crimini di
guerra commessi sul territorio italiano». Al
maresciallo Dino Perpignano i partigiani
conficcarono nel tendine un uncino e lo
appesero a testa in giù alle travi del
soffitto. Gli altri carabinieri Pasquale
Ruggirò, Domenico Del Vecchio, Lino Bertogli,
Antonio Ferro, Adelmino Zilio, Fernando
Ferretti, Ridolfo Colsi, Pietro Tognazzo,
Michele Castellano, Primo Amenici, Attilio
Franzan, quasi tutti ventenni, subirono a
turno altrettante sevizie. «Con dei picconi
cominciarono a colpirli negli occhi,
conficcarono le fotografie dei loro cari nel
petto, tagliarono i testicoli, levarono gli
occhi, finendoli con bastoni e calci -
spiega Pirina -. Dopo avere legato i corpi
martoriati con filo di ferro, li rotolarono
nella neve». Nonostante la gravita del
crimine perpetrato su prigionieri inermi la
procura di Padova ha dovuto archiviare
l'inchiesta, perché le autorità slovene non
hanno mai collaborato. Venti torturatori
erano stati individuati, alcuni ancora vivi
e tranquillamente residenti in Slovenia. Fra
questi Alojz Hrovat, pensionato dell'Inps.
Uno scandalo che ha favorito migliaia di ex
jugoslavi permettendo il cumulo degli anni
trascorsi nella lotta partigiana
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FRATELLI CERVI
- FRATELLI GOVONI
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tragedie parallele |
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La storia tragica dei fratelli Cervi
è abbastanza conosciuta e quindi qui
raccontata sommariamente.
La famiglia contadina Cervi era affittuaria
di una tenuta agricola a Gattatico.
I Cervi iniziano la lotta armata contro il
regime fascista dalla loro casa, che diventa
un centro di smistamento per rifugiati e
rifornimenti ai partigiani.
La Resistenza dei Cervi è intensa ma molto
breve: dopo le prime azioni in pianura, i
sette fratelli e alcuni compagni cercano di
organizzarsi nella montagna, ma in poco
tempo sono costretti a ritornare a casa, sui
propri passi.
Nell'ottobre del 1943 i Cervi danno vita
alla prima formazione partigiana della
regione, anticipando un movimento che, nei
mesi successivi – pur con ritardi,
difficoltà e differenze da zona a zona -,
riesce a radicarsi in modo non paragonabile
a nessu'altra realtà regionale. |
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I 7 FRATELLI CERVI |
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La volontà dei Cervi di iniziare subito la
lotta armata, facilitata dalla presenza
all'interno della loro formazione di ex
prigionieri di guerra già addestrati al
combattimento, si scontra con i dubbi e le
contraddizioni che segnano l'organizzazione
comunista locale ed emiliana dei primi mesi
di lotta.
Se da un lato gli appelli alla lotta armata
sono immediati, e provengono dalle
organizzazioni di partito ma anche dagli
organismi unitari nazionali e dagli stessi
Alleati, il gruppo dirigente comunista ha
difficoltà a tradurre in pratica tali
indicazioni. Prevalgono i pregiudizi
operaisti ( che fanno escludere che la lotta
possa partire dalle campagne) e la
convinzione che non sia possibile
organizzare bande armate in montagna.
L'obiettivo è dunque creare piccoli gruppi
di partigiani – inquadrati nei gruppi di
azione patriottica (GAP) – fortemente coesi
e controllati dal partito, che compiano
azioni in città.
I Cervi invece sono convinti della necessità
di agire subito. Nel corso del mese di
settembre mettono a frutto i tanti rapporti
stabiliti nel corso della lotta
antifascista, e contribuiscono a realizzare
l'ossatura del movimento partigiano nella
zona a ovest della bassa reggiana (Campegine,
Gattatico, Sant'Ilario, Poviglio, Castelnovo
Sotto). In ottobre saranno in montagna per
costituire una formazione armata.
Le loro azioni generano difficoltà nel
rapporto con alcuni dirigenti del Partito
Comunista reggiano, che non condividono le
modalità di azione della banda Cervi. Questa
situazione spinge i Cervi a prendere
contatti anche con la federazione comunista
di Parma, ma si traduce in una situazione di
parziale isolamento dal resto del movimento
locale.
E' inoltre difficile mobilitare altre
persone, come dimostra l'impossibilità di
trovare ospitalità presso altre case per
occultare i componenti della formazione: è
questa la ragione per cui verranno tutti
sorpresi in casa Cervi dai fascisti il 25
novembre 1943. |
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La storia tragica dei fratelli
Govoni invece è sconosciuta ai più.
Ma non per questo è meno spaventosa.
Correva l’anno 1945. La famiglia Govoni,
d’antico ceppo contadino, viveva a Pieve di
Cento, un grosso borgo bolognese quasi al
confine con la provincia ferrarese. La
componevano Cesare Govoni, sua moglie
Caterina Gamberini e otto figli: sei maschi
e due femmine.
Il primogenito, quarantunenne, aveva nome
Dino, un artigiano
falegname che si era iscritto al Partito
fascista repubblichino, assumendosi ruolo di
buona creanza in ogni dove, tanto che
nessuno, a guerra finita, aveva levato
contro di lui la minima accusa.
Dopo Dino, veniva Marino,
di 33 anni; era coniugato dal 1937 e aveva
una figlia. Combattente d’Africa, aveva
aderito dopo l’otto settembre alla R.S.I.
Contro di lui non pendevano accuse di sorta.
Terzogenita era Maria, nata
nel 1912; fu l’unica a salvarsi degli otto
fratelli perché, dopo sposata, si era
trasferita con il marito ad Argelato e i
partigiani non riuscirono a rintracciarla. |
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I 7 FRATELLI GOVONI |
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Veniva poi Emo, d’anni 32,
un artigiano falegname che non aveva aderito
alla R.S.I. e che non si era mai mosso dal
paese. Viveva con i genitori.
Il quintogenito, Giuseppe,
d’anni 30: coniugato da poco, faceva il
contadino ed abitava nella casa paterna.
Nemmeno lui era iscritto al P.F.R. Quando lo
uccisero, era diventato padre da tre mesi.
Il sesto e il settimo dei fratelli Govoni
erano Augusto, di 27 anni,
e Primo, di 22: ambedue
celibi, contadini, e vivevano con i
genitori. Non si erano mai interessati di
politica.
L’ultima nata si chiamava Ida,
immersa nei suoi meravigliosi 20 anni:
sposata da poco ed era mamma di
un’incantevole neonata. Abitava ad Argelato;
anche lei come il marito mai avevano svolto
politica attiva.
Va rammentato che la strage dei fratelli
Govoni e dei loro compagni di sventura non
fu provocata solamente da un’esplosione di
pazza criminalità, o da un odio furibondo
accumulato da alcuni partigiani nei mesi di
lotta fratricida, ma fu la conseguenza di un
piano freddamente e cinicamente attuato in
base alle direttive emanate dal Partito
Comunista con lo scopo di seminare dovunque
il terrore per giungere più facilmente al
controllo totale della situazione.
«Drago», «Zampo», «Ultimo» e i loro
compagni-partigiani furono gli esecutori di
queste direttive che insegnavano, tra
l’altro, come il terrore si semini
maggiormente con i fulminei prelevamenti, le
silenziose soppressioni, il segreto assoluto
sulla sorte toccata alle vittime e sul luogo
della loro sepoltura. Il mistero fomenta la
paura.
Al tramonto del 10 maggio 1945, i “rossi”
iniziarono i prelevamenti dei fratelli
Govoni. Tutta la popolazione della zona era
già talmente in preda allo sgomento, che i
partigiani avrebbero potuto ammazzare
chiunque e seppellirlo in pieno giorno con
la sicurezza assoluta che nessuno avrebbe
osato denunciarli. La strage dei fratelli
Govoni fu preceduta da molti massacri;
nessuno però ne commentava, anche se tutti
sapevano.
Il massacro dell’undici maggio, nel quale
trovarono la morte i fratelli Govoni, fu
preceduto, 48 ore prima, da un altro eccidio
in cui trovarono la morte dodici innocenti
in un isolato casolare di Voltareno, nei
pressi di Argelato.
Era giorno fatto quando il breve convoglio
ripartì per Argelato con il suo carico di
prigionieri. Ida Govoni implorò che la
lasciassero tornare a casa, dalla sua
creatura. Non le risposero neppure. Verso le
otto, i due automezzi raggiunsero il podere
del colono Emilio Grazia, dove già si
trovava prigioniero Marino Govoni. In un
vasto interno adibito a magazzino, cominciò
a sfogarsi la ferocia dei partigiani: pugni,
calci e colpi di bastone.
Raccontare ciò che accadde in quelle ore non
è documentabile; basti sostenere che nessuna
delle vittime morì per arma da fuoco.
Solamente le urla strazianti dei morituri
risuonarono, per molte ore, in una macabra,
insensata, furibonda esecuzione che era
estasi insaziabile e godibile spettacolo per
i “rossi”! Gli infami registi del drammatico
atto sanguigno s’incaricarono, pure, di far
confluire, sul posto, un buon gruppo di
“comparse”, della loro stessa specie, per
compiere collettivamente un rituale
sanguinario degno delle più orripilanti
celebrazioni sataniche.
Chi erano gli insensati esecutori dei
fratelli Govoni e suoi sfortunati compagni?
La risposta: trattasi della famigerata e
fantomatica “brigata Paolo”, ignota fino
allora, non era probabilmente altro che un
gruppo della 7ª GAP (Gruppi d’azione
patriottica). I partigiani della «2ª Brigata
Paolo» infierirono con una crudeltà e
sadismo veramente inconcepibili su ogni
prigioniero. Ida, la mamma ventenne, che non
aveva mai saputo niente di Fascisti o di
partigiani, morì tra sevizie orrende,
invocando la sua bambina. Quelli che non
morirono tra i tormenti furono strangolati;
e quando le urla si spensero definitivamente
erano le ore ventitré dell’undici maggio.
Avvenne, quindi, tra gli assassini, la
ripartizione degli oggetti d’oro in possesso
dei prelevati, mentre quelli di scarso o
nessun valore furono gettati in un pozzo
dove, anni avanti, saranno rinvenuti mentre
si svolgeva l’indagine istruttoria. I corpi
delle vittime furono sepolti subito dopo in
una fossa anticarro, non molto distante
dalla casa colonica. Per anni interi,
sfidando le raffiche dei mitra degli
assassini, sempre padroni della situazione,
solo i familiari delle vittime cercarono
disperatamente di fare luce su quanto fosse
accaduto, nella speranza di poter almeno
rintracciare i resti dei loro cari, primi
fra tutti, i genitori dei fratelli Govoni.
Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma
inutile.
I resti dei fratelli trucidati furono
recuperati sei anni più tardi ed, anche se
per quest’orrendo crimine ci fu un processo
che si concluse con quattro condanne
all’ergastolo, la giustizia non poté fare il
suo corso perché gli assassini “rossi”, così
come in altri casi, furono fatti fuggire
oltre cortina e di loro si perse ogni
traccia; successivamente, il crimine fu
coperto da amnistia! |
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ANCHE UNA RIVISTA PARTIGIANA DENUNCIO' LE
STRAGI COMUNISTE |
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La Penna, periodico liberale e cattolico
pubblicato nel 1945-47, sosteneva le stesse
tesi di Gianpaolo Pansa. Chiuse dopo
minacce, botte e incendi. |
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L'ECCIDIO DÌ MONTECCHIO
La Procura militare di La Spezia chiede i
nomi dei partigiani killer
REGGIO EMILIA
Nella
rossa Emilia anche una mera commemorazione
scatena gli animi. Sono bastate infatti una
corona di fiori e una croce, a ricordo dei
25 soldati del presidio Gnr di Montecchio
trucidati dai partigiani dopo essersi arresi
e aver trattato i termini con la mediazione
del parroco don Ennio Caraffi (furono
caricati su un camion, condotti nel bosco di
Cernaieto, torturati, uccisi e gettati in
alcune fosse, da cui furono riesumati il 16
ottobre '46), a rinfocolare le polemiche,
non solo storiografiche. L'Istoreco sostiene
che «nel fucilare i militi della Gnr i
partigiani applicarono le disposizioni del
Comando Militare Nord Emilia che (in data 6
e 16 aprile 1945) prevedevano di passare per
le armi i fascisti che, al momento della
liberazione, avessero opposto resistenza».
Questo però in violazione della Convenzione
di Ginevra sul trattamento dei prigionieri
disarmati, a seguito di qualsiasi tipo di
resa, visto che le formazioni partigiane
erano state riconosciute come militari dal
Decreto Luogotenenziale n. 194 del 12/4/45.
«Perché», si chiede Marco Pirina del Centro
Studi "Silentes Loquimur" (0434/554230), che
ha presentato un esposto al pm Marco De
Paolis della Procura militare di La Spezia,
«portarli all'esecuzione in un bosco
distante km dal luogo dello scontro? E
perché l'Istoreco non da le generalità dei
partigiani?». Ora l'acquisizione dei nomi
spetta al pm. Che cercherà pure di capire
come mai il corpo di Angelo Gallingani fu
trovato colla testa staccata Strana
fucilazione...
MISKA RUGGERI |
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Stragi censurate: Cologna Veneta
Quando i partigiani del "camion della morte"
fucilavano i ragazzini alla schiena
di
FRANCESCO SPECCHIA
••• Notte scura, quella del 25 maggio del
'45. Luciana Minardi non riusciva a dormire.
Era, Luciana, una ragazzina di 16 anni che
aveva trascinato un bagaglio di sogni
spezzati da Imola alla Bassa veronese per
arruolarsi fra i fascisti del battaglione
Colleoni della XMas. E ora Luciana era lì,
in una camerata di Cologna Veneta,
raggomitolata su un materasso, a parlottare
coi commilitoni di gagliardetti strappati al
nemico e della voglia di riabbracciare i
suoi. D'un tratto irruppero una ventina di
partigiani. Luciana e altre persone,
incolpate solo di essere parenti di fascisti
già prigionieri, vennero caricate su un
autocarro per essere «trattenute,
trasportate a Imola e colà giudicate». Il
camion, però, si fermò prima. A circa un
chilometro sull'argine del torrente Guà.
Sulle acque del quale Luciana finì col
galleggiare a pancia in giù, col saluto di
una mitragliata nella schiena. Al suo,
s'aggiunsero altri cinque cadaveri, tra cui
quelli di Iride Baldini col figlio appena
diciassettenne Alessandro e di Speranza
Ravaioli, anch'essa giovane madre di due
bimbi. La mattina di due giorni dopo la
stessa banda raggiungeva una caserma degli
Alleati a Verona e riusciva a farsi
consegnare, con l'inganno, sedici detenuti
politici, tutti provenienti da Cologna e
parenti delle vittime dell'eccidio
precedente. I partigiani, chiacchierando con
Augusto Baldini, ebbero perfino la
spudoratezza di rincuorarlo sulla salute di
moglie e figlio massacrati ore prima. Dei
reclusi, trasportati a Imola sul solito
«camion della morte», si salvarono in
quattro (tra cui -la beffa-, proprio il padre
di Luciana Minardi). Gli altri subirono il
linciaggio. Non senza prima aver obbligato
un figlio (Pietro Trerè, anni 15) a frustare
il padre, dopo torture. |
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Ricordo mio fratello ucciso dai partigiani
Caro direttore, io non so se, come sostiene
il prof. D'Orsi, Giampaolo Pansa sia un «rovescista»,
né perché il professore non abbia accettato
la sfida lanciatagli di verificare egli
stesso, con una sua équipe, la verità di
quanto affermato nei libri del giornalista.
Posso tuttavia narrarti quanto segue. la
notte del 7giugno 1945. Sono passati 45
giorni dalla fine della guerra.
Nell'ospedale di Lovere sono ricoverati due
militi della Tagliamento: uno dei due, grave
e immobilizzato a letto con trazioni atte
gambe perché colpito da raffiche di mitra
sparate dai partigiani. Il silenzio del
nosocomio viene squarciato dalle urla di un
gruppo di partigiani che, superato i
controlli, si dirigono verso la corsia
dove giacciono i due giovani della
Tagliamento. Da tutta la corsia si levano le
urla degli altri degenti, tra cui due
partigiani nella stessa corsia. Aiuti non ne
arrivano: i partigiani, incuranti, strappano
i due giovani dai loro letti dopo aver
tagliato le cinghie delle trazioni che
immobilizzavano le gambe di quello colpito
dalle raffiche di mitra. Se li caricano,
come due sacchi, sulle spalle, e si dirigono
verso l'uscita tra le urla degli altri
ammalati. A nulla vale la resistenza della
madre del più giovane dei due, che si
aggrappa disperata al corpo del figlio. I
partigiani escono dall'ospedale e
raggiungono il lago di Lovere nelle cui
acque si conclude la tragedia. Sono passati
45 giorni dalla fine della guerra. I due
giovani erano Aldo De Vecchi ed Emilio Le
Pera, mio fratello. Ogni anno, il 7 giugno,
un piccolo gruppo di amici, di parenti e di
commilitoni si raccoglie sulle rive del
lago, nelle cui acque, che mai hanno
restituito le spoglie, gettano una corona di
fiori. Il rapporto di denuncia dei
carabinieri è stato regolarmente redatto, ma
è finito in un remoto scaffale della caserma
di Lovere. Giampaolo Pansa ha citato
l'episodio nel libro "Il sangue dei vinti",
ma prima di pubblicare ha preteso di
consultare atti e documenti, prima fra tutti
la copia di quella denuncia, che da oltre
cinquant'anni, dorme negli scaffali del
Comando dei Carabinieri di Lovere. Si è poi
saputo che l'infermiera più scorbutica
dell'ospedale e che era addetta al controllo
degli accessi notturni dell'ospedale, aveva,
la mattina del 7 giugno, preteso che i due
giovani prendessero la comunione. Con stima,
GIOVANNI LE PERA
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L'eccidio dell'aprile '45
Quattordici ragazzini massacrati perché
dell'Rsi - Aperta un'inchiesta
di MARIA ACQUA SIMI
Pensavamo, dopo l'uscita dei libri
Giampaolo Pansa, di essere venuti finalmente
a conoscenza di tutte le stragi, più o meno
nascoste, della Resistenza. Invece no, C'è
un eccidio, tanto grave quanto poco
conosciuto, che avvenne nei giorni della
Liberazione. Al riguardo la Procura di Busto
Arsizio ha disposto un'indagine, alla quale
seguirà a breve un rinvio a giudizio con
udienza preliminare. Lo dice a Libero
l'avvocato Luciano Randazzo, che dal 2001 si
occupa della vicenda. «È una storia
drammatica, tenuta nascosta, sui cui gravano
dubbi ed incertezze», dichiara prima di
cominciare il racconto. A morire, il 26
aprile del 1945, furono quattordici
ragazzini, militanti dell'Accademia del
Littorio. Il giorno prima, mentre Sandro
Pertini annunciava alla radio l'avvenuta
liberazione del Paese dai nazifascisti, il
reparto di giovanissimi militi, di stanza a
Malpensa, si dirige verso Oleggio. Sono
ragazzetti tra i 13 e i 17 anni. Poco più
che bambini. Tra loro il sergente Mario
Onesti, classe 1926, e un nipote del Duce,
figlio di Edvige. Vengono intercettati a
Samarate (Varese) dalla brigata partigiana
di Cino Moscatelli e subito catturati.
Firmano però una resa: in cambio avranno
salva la vita e un salvacondotto per tornare
a casa. Il verbale viene firmato da un
avvocato del Cln, dal cappellano partigiano
don Enrico Nobile e dallo stesso Onesti. Non
verrà mai rispettato. I "piccoli
repubblichini" vengono internati nelle
segrete del castello di Samarate, torturati
e infine fucilati nella piazza del paese. I
corpi, mutilati e dileggiati, sepolti
frettolosamente in una fossa comune.
Non se ne sarebbe saputo più nulla, se
non fosse stato per la pietà cristiana della
sorella del sergente ucciso. Elda Onesti per
anni ha cercato il corpo del fratello e dei
suoi amici. Raggiunta telefonicamente da
Libero racconta delle difficoltà e delle
reticenze della gente: nessuno Voleva
parlare di quella strage. Non il comune, che
«ha sempre negato di sapere dove fossero
sepolti». Non gli abitanti del paese, che
pure avevano visto i cadaveri in piazza.
Così la signora arriva a pagare il custode
del cimitero: «Gli diedi diecimila
lire. Trovai il corpo di mio fratello e dei
suoi. Stavano ammucchiati in una fossa sotto
l'immondizia». Il ricordo è nitido, il
dolore vivo. Elda Onesti non cerca vendetta
- «i partigiani erano delle bestie, al
loro perdono ci penserà Dio» - ma un
processo sì. Vuole giustizia, e rendere
onore ai caduti. «Nessun avvocato ha mai
voluto occuparsene» racconta. Anche perché
nel tempo quella strage ha assunto contorni
ancora più inquietanti, come documenta
ancora una volta l'avvocato romano: «La
brigata Moscatelli nel 45 faceva riferimento
a due grossi esponenti politici. Gli stessi
che firmarono la condanna a morte di Onesti
e dei suoi». Si riferisce a Luigi Longo,
guida storica della Brigata Garibaldi, che
nel '46 sarà membro dell'Assemblea
Costituente e nel '64 succederà a Togliatti.
Ma si riferisce soprattutto ad un secondo
uomo, che assieme a Longo e Valiani
organizzò l'insurrezione di Milano. Lo
stesso che annunciò per radio agli italiani
l'avvenuta liberazione, e che l'8 luglio
1978 sarebbe divenuto il settimo Presidente
della Repubblica: Sandro Pertini.
Sono trascorsi 56 anni, il tribunale
prosegue le ricerche mentre molti degli
indagati sono morti. Ne restano in vita due:
Pierino Genoni e Santino Banda. Il 29 marzo
2006 il sindaco di Samarate, Vittorio
Solanti, è stato convocato in Tribunale dal
Gip Donatella Banci come persona informata
dei fatti. «So che c'era la guerra e che era
una situazione difficile, dove regnavano
l'odio e l'astio nei confronti
dell'avversario» ha dichiarato, negando di
conoscere particolari utili all'inchiesta.
Questo non basta però al legale della
signora Onesti, che promette battaglia. I
nomi su cui indagare ci sono. La Procura di
Busto Arsizio si sta muovendo, nella persona
della dottoressa Giglio, per accertare la
verità. Per rendere giustizia al sangue dei
vinti. Quattordici bambini uccisi da una
storia molto più grande di loro. |
|
LA VOLANTE ROSSA |
Nel biennio 1945-46 dopo la fine della
guerra, il Centro-Nord fu teatro di
assassini e stragi per vendette politiche, ad
opera di bande armate, composte da ex
partigiani o di organizzazioni paramilitari.
A ciò si aggiungono rapine, estorsioni,
aggressioni personali, reati contro il
patrimonio che a volte sotto la nobile
insegna di "guerra di classe" c'erano solo
episodi di delinquenza comune. |
Nell'immagine: LA VOLANTE IN SFILATA -
Milano 25 aprile 1948. |
Nel terzo anniversario della Liberazione,
per scelta delle autorità, sfilano per via
Dante gli ex appartenenti alle bande
partigiane comuniste, preceduti dai
componenti della Volante Rossa, formazione
terroristica alle dirette dipendenze del
PCI. |
|
|
Sacerdoti
vittime
del
comunismo.
Martiri
nell'oblio
|
Tra
le
tante
pagine
mai
scritte
della
nostra
storia
recente
vi è
sicuramente
quella
che
attiene
alla
vera
e
propria
strage
di
sacerdoti
operata
da
bande
di
partigiani
comunisti,
in
particolare
nel
"triangolo
rosso"
emiliano,
tra
l'8
settembre
1943
(giorno
dell'armistizio)
e il
18
aprile
1948
(data
delle
elezioni
politiche
vinte
dalla
DC).
Alcuni
di
questi
religiosi
furono
uccisi
per
vendetta
personale
o
perché
avevano
criticato
ruberie,
eccessi
ed
eccidi
compiuti
dalla
"Resistenza
rossa";
qualcuno
era
cappellano
dei
partigiani
cattolici
e si
opponeva
alle
infiltrazioni
comuniste.
Quasi
tutti
furono
"prelevati"
di
notte
e
mai
più
ritrovati;
pochissimi
hanno
avuto
giustizia
in
tribunale
e
molti
sono
stati
diffamati.
Si
può
certamente
affermare
che
questi
sacerdoti
immolarono
la
vita
per
restare
fedeli
alla
loro
missione
di
apostoli
di
Cristo.
A
distanza
di
60
anni
il
saggista
Roberto
Beretta
prova
a
squarciare
il
velo
di
silenzio
su
queste
efferatezze
con
il
libro
Storia
dei
preti
uccisi
dai
partigiani
(Piemme,
Casale
Monferrato
2005),
volume
che
si
consiglia
a
tutti
i
docenti
di
storia
di
buona
volontà.
Si
propongono
di
seguito
120
nomi,
ma
certo
i
sacerdoti
uccisi
da
componenti
le
bande
partigiane,
o
presunti
tali,
sono
di
più.
Don
Giuseppe
Amateis
-
parroco
di
Coassolo
(Torino),
ucciso
a
colpi
di
ascia
dai
partigiani
comunisti
il
15
marzo
1944,
perché
aveva
deplorato
gli
eccessi
dei
guerriglieri
rossi.
Don
Gennaro
Amato
-
parroco
di
Locri
(Reggio
Calabria),
ucciso
nell'ottobre
1943
dai
capi
della
repubblica
comunista
di
Paulonia.
Don
Ernesto
Bandelli
-
parroco
di
Bria,
ucciso
dai
partigiani
slavi
a
Bria
il
30
aprile
1945.
Don
Medardo
Barbieri
-
parroco
di
Qualto.
Ucciso
nell'inverno
1944
nel
bolognese.
Don
Vittorio
Barel
-
economo
del
seminario
di
Vittorio
Veneto,
ucciso
il
26
ottobre
1944
dai
partigiani
comunisti.
Don
Stanislao
Barthus
-
della
Congregazione
di
Cristo
Re
(Imperia),
ucciso
il
17
agosto
1944
dai
partigiani
perché
in
una
predica
aveva
deplorato
le
"violenze
indiscriminate
dei
partigiani".
Don
Duilio
Bastreghi
-
parroco
di
Cigliano
e
Capannone
Pienza,
ucciso
la
notte
del
3
luglio
1944
dai
partigiani
comunisti
che
lo
avevano
chiamato
con
un
pretesto.
Don
Carlo
Beghè
-
parroco
di
Novegigola
(Apuania),
sottoposto
il 2
marzo
1945
a
finta
fucilazione
che
gli
produsse
una
ferita
mortale.
Don
Giuseppe
Beotti
-
arciprete
di
Sidolo
(Piacenza).
Ucciso
il
20
luglio
1944.
Don
Francesco
Bonifacio
-
curato
di
Villa
Gardossi
(Trieste),
catturato
dai
miliziani
comunisti
iugoslavi
l'11
settembre
1946
e
gettato
in
una
foiba.
Don
Luigi
Bordet
-
parroco
di
Hone
(Aosta),
ucciso
il 5
marzo
1946
perché
aveva
messo
in
guardia
i
suoi
parrocchiani
dalle
insidie
comuniste.
Don
Sperindio
Bolognesi
-
parroco
di
Nismozza
(Reggio
Emilia),
ucciso
dai
partigiani
comunisti
il
25
ottobre
1944.
Don
Giuseppe
Borea-
parroco
di
Obolo
(Piacenza).
Ucciso
il 9
febbraio
1945.
Don
Pasquino
Borghi
-
parroco
di
Corriano
(Reggio
Emilia).
Fucilato
il
30
gennaio
1944.
Don
Corrado
Bortolini
-
parroco
di
S.
Maria
in
Duno
(Bologna),
prelevato
dai
partigiani
il
1°
marzo
1945
e
fatto
sparire.
Don
Raffaele
Bortolini
-
canonico
della
Pieve
di
Cento,
ucciso
dai
partigiani
la
sera
del
20
giugno
1945.
Don
Luigi
Bovo
-
parroco
di
Bertipaglia
(Padova),
ucciso
il
25
settembre
1944
da
un
partigiano
comunista
poi
giustiziato.
Don
Umberto
Bracchi.
Congregaz.
Preti
della
Missione
di
Piacenza.
Ucciso
il
19
luglio
1944.
Don
Miroslavo
Bulleschi
-
parroco
di
Monpaderno
(diocesi
di
Parenzo
e
Pola),
ucciso
il
23
agosto
1947
dai
comunisti
iugoslavi.
Don
Tullio
Calcagno
-
Direttore
di
"Crociata
Italica",
fucilato
dai
partigiani
comunisti
a
Milano
il
29
aprile
1945.
Padre
Martino
Capelli
-
missionario
del
Sacro
Cuore.
Ucciso
il
1°
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Ferdinando
Casagrande
-
parroco
a
Gugliata.
Ucciso
il 9
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Sebastiano
Caviglia
-
cappellano
della
Gnr,
ucciso
il
27
aprile
1945
ad
Asti.
Don
Crisostomo
Ceraiolo
-
o.f.m.,
cappellano
militare
decorato
al
valor
militare,
prelevato
il
19
maggio
1944
da
partigiani
comunisti
nel
convento
di
Montefollonico
e
trovato
cadavere
in
una
buca
con
le
mani
legate
dietro
la
schiena.
Don
Elia
Comini
-
salesiano.
Ucciso
il
1°
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Aldemiro
Corsi
-
parroco
di
Grassano
(Reggio
Emilia),
assassinato
nella
sua
canonica,
con
la
domestica
Zeffirina
Corbelli,
da
partigiani
comunisti,
la
notte
del
21
settembre
1944.
Don
Ferruccio
Crecchi
-
parroco
di
Levigliani
(Lucca),
fucilato
all'arrivo
delle
truppe
di
colore
nella
zona
su
false
accuse
dei
comunisti
del
luogo.
Don
Antonio
Curcio
-
cappellano
dell'11°
Btg.
Bersaglieri,
ucciso
il 7
agosto
1941
a
Dugaresa
da
comunisti
croati.
Don
Sigismondo
Damiani
o.f.m.
- ex
cappellano
militare,
ucciso
dai
comunisti
slavi
a S.
Genesio
di
Macerata
l'11
marzo
1944.
Don
Teobaldo
Dapporto
-
arciprete
di
Castel
Ferrarese
(Diocesi
di
Imola),
ucciso
da
un
comunista
nel
settembre
1945.
Don
Edmondo
De
Amicis
-
cappellano,
pluridecorato
della
prima
guerra
mondiale,
venne
ucciso
dai
"gappisti"
a
Torino,
sulla
soglia
della
sua
abitazione
il
24
aprile
1945
e
spirò
dopo
48
ore
di
atroce
agonia.
Don
Francesco
Delnevo
-
parroco
di
Porcigatone
(Piacenza).
Ucciso
il
20
luglio
1944.
Don
Aurelio
Diaz
-
cappellano
della
Sezione
Sanità
della
divisione
"Ferrara",
fucilato
nelle
carceri
di
Belgrado
nel
gennaio
del
'45
da
partigiani
"titini".
Don
Adolfo
Dolfi
-
canonico
della
Cattedrale
di
Volterra,
sottoposto
il
28
maggio
1945
a
torture
che
lo
portarono
alla
morte
l'8
ottobre
successivo.
Don
Giuseppe
Donadelli
-
parroco
di
Vallisnera
(Reggio
Emilia).
Ucciso
il 2
luglio
1944.
Don
Enrico
Donati
-
arciprete
di
Lorenzatico
(Bologna),
massacrato
il
23
maggio
1945
sulla
strada
di
Zenerigolo.
Don
Giuseppe
Donini
-
parroco
di
Castagneto
(Modena).
Trovato
ucciso
sulla
soglia
della
sua
casa
la
mattina
del
20
aprile
1945.
Don
Giuseppe
Dorfmann
-
fucilato
nel
bosco
di
Posina
(Vicenza)
il
27
aprile
1945.
Don
Vincenzo
D'Ovidio
-
parroco
di
Poggio
Umbricchio
(Teramo),
ucciso
nel
maggio
'44
sotto
accusa
di
filo-fascismo.
Don
Giovanni
Errani
-
cappellano
militare
della
G.N.R.,
decorato
al
valor
militare,
condannato
a
morte
dal
CNL
di
Forlì,
salvato
dagli
americani
e
deceduto
in
seguito
a
causa
delle
sofferenze
subite.
Don
Colombo
Fasce
-
parroco
di
Cesino
(Genova),
ucciso
nel
maggio
del
'45
da
partigiani
comunisti.
Don
Giovanni
Fausti
-
Superiore
generale
dei
Gesuiti
in
Albania,
fucilato
il 5
marzo
1946
perché
italiano.
Con
lui
furono
trucidati
altri
sacerdoti
dei
quali
non
si è
mai
potuto
conoscere
il
nome.
Don
Fernando
Ferrarotti
-
o.f.m.
-
cappellano
militare
reduce
dalla
Russia,
ucciso
nel
giugno
1944
a
Champorcher
(Aosta)
da
partigiani
comunisti.
Don
Gregorio
Ferretti
-
parroco
di
Castelvecchio
(Teramo),
ucciso
dai
partigiani
slavi
ed
italiani
nel
maggio
1944.
Don
Giovanni
Ferruzzi
-
arciprete
di
Campanile
(Imola),
ucciso
dai
partigiani
il 3
aprile
1945.
Don
Achille
Filippi
-
parroco
di
Maiola
(Bologna),
ucciso
la
sera
del
25
luglio
1945
perché
accusato
di
filo-fascismo.
Don
Sante
Fontana
-
parroco
di
Comano
(Pontremoli),
ucciso
dai
partigiani
il
16
gennaio
1945.
Don
Giovanni
Fornasini
-
viceparroco
di
Sperticano.
Ucciso
il
13
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Mauro
Fornasari
-
diacono.
Ucciso
il 5
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Giuseppe
Gabana
-
della
diocesi
di
Brescia,
cappellano
della
VI
legione
della
guardia
di
Finanza,
ucciso
il 3
marzo
1944
da
un
partigiano
comunista.
Don
Giuseppe
Galassi
-
arciprete
di
S.
Lorenzo
in
Selva
(Imola),
ucciso
il
1°
maggio
1945
perché
sospettato
di
filo-fascismo.
Don
Tiso
Galletti
-
parroco
di
Spazzate
Passatelli
(Imola),
ucciso
il 9
maggio
1945
perché
aveva
criticato
il
comunismo.
Don
Domenico
Gianni
-cappellano
militare
in
Jugoslavia,
prelevato
la
sera
del
21
aprile
1945
e
soppresso
dopo
3
giorni.
Don
Giovanni
Guicciardi
-
parroco
di
Mocogno
(Modena),
ucciso
il
10
giugno
1945
nella
sua
canonica
dopo
sevizie
atroci
da
chi
aveva
compiuto
nella
zona
una
lunga
serie
di
rapine
e
delitti.
Don
Virginio
Icardi
-
parroco
di
Squaneto
(Aqui),
ucciso
il 4
luglio
1944
a
Preto
da
partigiani
comunisti.
Don
Luigi
Ilariucci
-
parroco
di
Garfagnolo
(Reggio
Emilia),
ucciso
il
19
agosto
1944
da
partigiani
comunisti.
Don
Giuseppe
Jemmi
-
cappellano
di
Felina
(Reggio
Emilia),
ucciso
il
19
aprile
1945
perché
aveva
denunciato
"gli
eccessi
inumani
di
quanti
disonoravano
il
movimento
partigiano".
Don
Antonio
Lanzoni
-
parroco
di
Montecchio
(Faenza).
Fucilato
nel
marzo
1944.
Don
Ilario
Lazzeroni
- Fu
ucciso
il
25
luglio
1944
a
Montegranelli
(Bologna).
Don
Serafino
Lavezzari
-
seminarista
di
Robbio
(Piacenza),
ucciso
il
25
febbraio
1945
dai
partigiani,
insieme
alla
mamma
e a
due
fratelli.
Don
Luigi
Lenzini
-
parroco
di
Crocette
di
Pavullo
(Modena),
trucidato
il
20
luglio
1945.
Nobile,
autentica
figura
di
martire
della
fede.
Prelevato
nottetempo
da
un'orda
di
criminali,
strappato
dalla
sua
chiesa,
torturato,
seviziato,
fu
ucciso
dopo
lunghissime
ore
di
indescrivibile
agonia,
quale
raramente
si
trova
nella
storia
di
tutte
le
persecuzioni.
Don
Giuseppe
Lodi
-
suddiacono.
Ucciso
il
29
settembre
1944
nel
bolognese.
Don
Giuseppe
Lorenzelli
-
priore
di
Corvarola
di
Bagnone
(Pontremoli),
ucciso
dai
partigiani
il
27
febbraio
1945,
dopo
essere
stato
obbligato
a
scavarsi
la
fossa.
Don
Luigi
Manfredi
-
parroco
di
Budrio
(Reggio
Emilia),
ucciso
il
14
dicembre
1944
perché
aveva
deplorato
gli
eccessi
partigiani.
Don
Ubaldo
Marchioni
-
parroco
di
S.
Martino
di
Caparra
(Bologna).
Ucciso
il
29
settembre
1944.
Don
Dante
Mattioli
-
parroco
di
Coruzzo
(Reggio
Emilia),
prelevato
dai
partigiani
rossi
la
notte
dell'11
aprile
1945.
Don
Fernando
Merli
-
mensionario
della
Cattedrale
di
Foligno,
ucciso
il
21
febbraio
1944
presso
Assisi
da
iugoslavi
istigati
da
comunisti
italiani.
Don
Angelo
Merlini
-
parroco
di
Fiamenga
(Foligno),
ucciso
il
21
febbraio
1944
presso
Foligno.
Don
Armando
Messeri
-
cappellano
delle
suore
della
S.
Famiglia
in
Marino,
ucciso
dai
partigiani
comunisti
il
18
giugno
1944.
Don
Ildebrando
Mezzetti
-
parroco
di
S.
Martino
in
Pedriolo
(Bologna).
Ucciso
il
20
settembre
1944.
Don
Elio
Monari
-
assistente
G.
maschile.
Ucciso
dalla
banda
"Carità"
nel
modenese.
Don
Natale
Monticelli
-
parroco
di
Monzone
(Modena).
Fucilato
a
Bologna.
Don
Giacomo
Moro
-
cappellano
militare
in
Jugoslavia,
fucilato
da
comunisti
titini
a
Micca
di
Montenegro.
Don
Adolfo
Nannini
-
parroco
di
Cercina
(Firenze),
ucciso
il
30
maggio
1944
da
partigiani
comunisti.
Don
Simone
Nardin
-
dei
benedettini
olivetani,
tenente
cappellano
dell'ospedale
militare
"Belvedere"
in
Abbazia
di
Fiume,
prelevato
dai
partigiani
iugoslavi
nell'aprile
1945
e
fatto
morire
tra
orrende
sevizie.
Don
Luigi
Obid
-
economo
di
Podsabotino
e
San
Mauro
(Gorizia),
ucciso
il
15
gennaio
1945.
Don
Antonio
Padoan
-
parroco
di
Castel
Vittorio
(Imperia),
ucciso
da
partigiani
l'8
maggio
1944
con
un
colpo
di
pistola
al
cuore
e
uno
in
bocca.
Don
Settimio
Patuelli
-
parroco
di
Ostra
(Imola).
Ucciso
il
25
settembre
1945.
Don
Attilio
Pavese
-
parroco
di
Alpe
di
Gorreto
(Tortona),
ucciso
il 6
dicembre
1944
da
partigiani
dei
quali
era
cappellano
perché
confortava
alcuni
prigionieri
tedeschi
condannati
a
morte.
Don
Luigi
Pelliconi
-
parroco
di
Poggiolo
(Imola).
Ucciso
il
14
aprile
1945.
Don
Francesco
Pellizzari
-
parroco
di
Tagliolo
(Aqui),
chiamato
nella
notte
del
10
maggio
1945
e
fatto
sparire
per
sempre.
Don
Pombeo
Perai
-
parroco
dei
Ss.
Pietro
e
Paolo
di
Città
della
Pieve,
ucciso
per
rappresaglia
partigiana
il
16
giugno
1944.
Don
Enrico
Percivalle
-
parroco
di
Varriana
(Tortona),
prelevato
dai
partigiani
e
ucciso
a
colpi
di
pugnale
il
14
febbraio
1944.
Don
Vittorio
Perkan
-
parroco
di
Elsane
(Fiume),
ucciso
il 9
maggio
1945
da
partigiani
mentre
celebrava
un
funerale.
Don
Aladino
Petri
-
pievano
di
Caprona
(Pisa),
ucciso
il 2
giugno
1944
perché
ritenuto
filo-fascista.
Don
Nazzareno
Pettinelli
-
parroco
di
S.
Lucia
di
Ostra
di
Senigallia,
fucilato
per
rappresaglia
partigiana
l'11
luglio
1944.
Don
Umberto
Pessina
-
parroco
di
S.
Martino
di
Carreggio,
ucciso
il
18
giugno
1946
da
partigiani
comunisti.
Seminarista
Giuseppe
Pierami
-
studente
di
teologia
della
diocesi
di
Apuania,
ucciso
il 2
novembre
1944
sulla
Linea
Gotica
da
partigiani
comunisti.
Don
Battista
Pigozzi
-
parroco
di
Cervaiola
(Reggio
Emilia).
Ucciso
il
20
marzo
1944.
Don
Ladislao
Pisacane
-
vicario
di
Circhina
(Gorizia),
ucciso
da
partigiani
slavi
il 5
febbraio
1945
con
altre
12
persone.
Don
Antonio
Pisk
-
curato
di
Canale
d'Isonzo
(Gorizia),
prelevato
da
partigiani
slavi
il
28
ottobre
1944
e
fatto
sparire
per
sempre.
Don
Nicola
Polidori
-
della
diocesi
di
Nocera
e
Gualdo,
fucilato
il 9
giugno
1944
a
sefro
da
partigiani
comunisti.
Don
Giuseppe
Preci
-
parroco
di
Montalto
(Modena).
Chiamato
di
notte
col
solito
tranello,
fu
ucciso
sul
sagrato
della
chiesa
il
24
maggio
1945.
Don
Giuseppe
Rasori
-
parroco
di
S.
Martino
in
Casola
(Bologna),
ucciso
la
notte
del
2
luglio
1945
nella
sua
canonica,
sotto
accusa
di
filo-fascismo.
Don
Alfonso
Reggiani
-
parroco
di
Amola
di
Piano
(Bologna),
ucciso
da
marxisti
la
sera
del
5
dicembre
1945.
Seminarista
Rolando
Rivi
- di
Piane
di
Monchio
(Reggio
Emilia),
di
16
anni,
ucciso
il
10
aprile
1945
da
partigiani
comunisti
solo
perché
indossava
la
veste
talare.
Don
Pietro
Rizzo
-
parroco
di
Jolanda
di
Savoia
(Ferrara),
fucilato
il
28
marzo
1944.
Don
Giuseppe
Rocco
-
parroco
di
Santa
Maria,
diocesi
di
S.
Sepolcro,
ucciso
da
slavi
il 4
maggio
1945.
Don
Angelico
Romiti
o.f.m.
-
cappellano
degli
allievi
ufficiali
della
Scuola
di
Fontanellato,
decorato
al
valor
militare,
ucciso
il 7
maggio
1945
da
partigiani
comunisti.
Padre
Mario
Ruggeri
-
carmelitano.
Ucciso
l'8
ottobre
1944
nel
bolognese.
Don
Leandro
Sangiorgi
-
salesiano,
cappellano
militare
decorato
al
valor
militare,
fucilato
a
Sordevolo
Biellese
il
30
aprile
1945.
Don
Alessandro
Sanguanini
-
della
congregazione
della
Missione,
fucilato
a
Ranziano
(Gorizia)
il
12
ottobre
1944
da
partigiani
slavi.
Don
Lodovico
Sluga
-
vicario
di
Circhina
(Gorizia),
ucciso
insieme
al
confratello
Don
Pisacane
il 5
febbraio
1944.
Don
Luigi
Solaro
- di
Torino,
ucciso
il 4
aprile
1945
perché
congiunto
del
federale
di
Torino
Giuseppe
Solaro
anch'egli
soppresso.
Don
Alessandro
Sozzi
-
parroco
di
Strela
(Piacenza).
Ucciso
il
19
luglio
1944.
Don
Emilio
Spinelli
-
parroco
di
Campogialli
(Arezzo),
fucilato
il 6
maggio
1944
dai
partigiani
sotto
accusa
di
filo-fascismo.
Don
Eugenio
Squizzato
o.f.m.
-
cappellano
partigiano
ucciso
dai
suoi
il
16
aprile
1944
fra
Corio
e
Lanzo
Torinese
perché,
impressionato
dalle
crudeltà
che
essi
commettevano,
voleva
abbandonare
la
formazione.
Chierico
Italo
Subacchi,
delle
missioni
estere.
Ucciso
nel
piacentino
il
20
luglio
1944.
Don
Ernesto
Talè
-
parroco
di
Castelluccio
Formiche
(Modena),
ucciso
insieme
alla
sorella
l'11
dicembre
1944.
Don
Giuseppe
Tarozzi
-
parroco
di
Riolo
(Bologna),
prelevato
la
notte
del
26
maggio
1945
e
fatto
sparire.
Il
suo
corpo
fu
bruciato
in
un
forno
di
pane,
in
una
casa
colonica.
Don
Angelo
Taticchio
-
parroco
di
Rovigno
(Pola),
ucciso
dai
partigiani
iugoslavi
nell'ottobre
1943
perché
aiutava
gli
italiani.
Don
Carlo
Terenziani
-
prevosto
di
Ventoso
(Reggio
Emilia),
fucilato
la
sera
del
29
aprile
1945
perché
ex
Cappellano
della
milizia.
Don
Alberto
Terilli
-
arciprete
di
Esperia
(Frosinone),
morto
in
seguito
a
sevizie
inflittegli
dai
marocchini,
eccitati
da
partigiani,
nel
maggio
1944.
Don
Andrea
Testa
-
parroco
di
Diano
Borrello
(Savona),
ucciso
il
16
luglio
1944
da
una
banda
partigiana
perché
osteggiava
il
comunismo.
Mons.
Eugenio
Corradino
Torricella
-
della
Diocesi
di
Bergamo,
ucciso
il 7
gennaio
1944
ad
Agen
(Francia)
da
partigiani
comunisti
per
i
suoi
sentimenti
d'italianità.
Don
Rodolfo
Trcek
-
diacono
della
diocesi
di
Gorizia,
ucciso
il
1°
settembre
1944
a
Montenero
d'Idria
da
partigiani
comunisti.
Don
Mario
Turci
-
parroco
a
Madonna
dell'Albero
(Ravenna).
Strangolato
nel
settembre
1944.
Don
Francesco
Venturelli
-
parroco
di
Fossoli
(Modena),
ucciso
il
15
gennaio
1946
perché
inviso
ai
partigiani.
Don
Gildo
Vian
-
parroco
di
Bastia
(Perugia),
ucciso
dai
partigiani
comunisti
il
14
luglio
1944.
Don
Giuseppe
Violi
-
parroco
di
S.
Lucia
di
Madesano
(Parma),
ucciso
il
31
novembre
1945
da
partigiani
comunisti.
Don
Antonio
Zoli
-
parroco
di
Morra
del
Villar
(Cuneo),
ucciso
da
partigiani
comunisti
perché,
durante
la
predica
del
Corpus
Domini
del
1944,
aveva
deplorato
l'odio
tra
fratelli
come
una
maledizione
di
Dio.
|
|
14
Maggio
2006 Friuli 1945: partigiani comunisti
fucilano
una
formazione
della
Brigata
Osoppo,
costituita
da
partigiani
cattolici
Friuli 1945: partigiani comunisti fucilano una formazione
della Brigata Osoppo, costituita da partigiani cattolici, azionisti e indipendenti. Il motivo? Ancora in discussione
|
STRAGE DI PORZUS
UN'OMBRA CUPA SULLA RESISTENZA
|
|
"Giacca" all'epoca della Resistenza |
|
di PAOLO DEOTTO
7 febbraio 1945, mercoledì, alle 14.30. Nelle malghe di Porzus, due casolari sopra Attimis, in provincia di Udine, ha sede il comando Gruppo brigate est della divisione Osoppo, formata dai cosiddetti "fazzoletti verdi" della Resistenza, partigiani cattolici, azionisti e indipendenti. Giungono in zona cento partigiani comunisti, agli ordini di Mario Toffanin (nome di battaglia Giacca) sotto le false spoglie di sbandati in cerca di rifugio dopo uno scontro con i nazifascisti. In realtà, è una trappola: alla malga vengono uccisi il comandante della Osoppo, Francesco De Gregori (nome di battaglia Bolla), il commissario politico Enea, al secolo Gastone Valente, una giovane donna sospettata di essere una spia, Elda Turchetti e un giovane, Giovanni Comin, che si trovava a Porzus perché aveva chiesto di essere arruolato nella Osoppo. Il capitano Aldo Bricco, che si trovava alle malghe perché doveva sostituire Bolla, riesce a fuggire e salva la vita perché i suoi inseguitori, dopo averlo colpito con alcune raffiche di mitra, lo credono morto.
|
Altri venti partigiani osovani vengono catturati e condotti prima a Spessa di Cividale e poi nella zona del Bosco Romagno, sopra Ronchi di Spessa, una ventina di chilometri più a valle. Due dei prigionieri si dichiarano disposti a passare tra i garibaldini. Gli altri saranno tutti uccisi e sbrigativamente sotterrati tra il 10 e il 18 febbraio. Della cosa si cercò di non far trapelare nulla. Ancora un mese dopo c'era chi assicurava che i capi Bolla ed Enea erano tenuti prigionieri dai garibaldini o dagli sloveni. |
"… La propaganda clericale del tempo descriveva i partigiani comunisti, inquadrati nelle Brigate Garibaldi, come dei Satana spergiuri che volevano consegnare il Friuli alla Jugoslavia. Furono del resto pure inglobati nella Osoppo molti fascisti, come il Reggimento Alpini Tagliamento (formazione della Repubblica di Salò) che operava nella zona con il compito di combattere i "comunisti jugoslavi" e questo avvenne con la mediazione dell'Arcivescovado di Udine (Arcivescovo Nogara). Lo scopo della Osoppo e della Tagliamento infatti coincideva, l'obiettivo comune era quello di criminalizzare i partigiani delle Garibaldi.
In molte zone facevano persino presidi misti, cioè repubblichini e osovani.
Quelli della Osoppo, si appropriavano delle forniture inglesi che spettavano alle Garibaldi, l'accordo con gli inglesi era che il 30% di ogni lancio fatto alla Osoppo doveva essere destinato alle Garibaldi. Quelli della Osoppo non rispettarono mai l'accordo ed i Garibaldini per approvvigionarsi e procurarsi armi dovevano assaltare i presidi tedeschi e fascisti… "
(da un'intervista rilasciata nel 1996 dal comandante partigiano Mario Toffanin, Giacca)
"… La Grande Slovenia, volevano i partigiani comunisti. Noi volevamo solo combattere per la libertà, non per il comunismo, ed eravamo favorevoli a lasciare ad un referendum dopo la liberazione la scelta sui confini… Bolla, il comandante, alzava la bandiera, bandiera italiana, bandiera con lo stemma sabaudo. Io lo mettevo in guardia: attento, gli dicevo, la vedono i comunisti e i partigiani sloveni, quello stemma a loro ricorda il fascismo, toglila. E lui no, cocciuto, perché credeva sopra ogni cosa all'Italia, senza compromessi, senza tante prudenze politiche… Avevamo sempre operato insieme, anche se noi cattolici ci preoccupavamo, oltre che della onestà dei fini, anche della onestà dei mezzi. Ci furono discussioni assai accese con i comandanti comunisti sulla necessità di azioni che comportavano sacrifici di vite umane".
(da un'intervista rilasciata nel 1997 da Monsignor Aldo Moretti, Lino, Medaglia d'Oro al valor militare, uno dei fondatori della Divisione Osoppo). |
A differenza di altri, Giacca aveva parlato molto di Porzus
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Quando nel 1997 il regista Renzo Martinelli doveva girare gli esterni del suo film Porzus, si trovò alle prese con i divieti di diversi sindaci, che non consentirono le riprese sui loro territori. Erano passati più di cinquant'anni, ma di Porzus molti non volevano neppure parlare; non mancò chi chiese di vietare la presentazione del film a Venezia. Cattive coscienze, risentimenti, fanatismo ideologico duro a morire, uniti ad una insopprimibile abitudine a riscrivere la storia con ottica di parte, hanno fatto sì che a tutt'oggi restino dei punti interrogativi su quella cupa vicenda. Non abbiamo la pretesa di poter fornire tutte le risposte; confidiamo solo che una rilettura seria e serena sia possibile, a passioni sopite e senza nessuna preconcetto. E speriamo che cinquantasei anni di distanza siano sufficienti, non foss'altro per rendersi conto che non esiste causa, per nobile che sia, che possa trarre giovamento dalle falsificazioni della realtà.
Molti segreti se li portò nella tomba Mario Toffanin, Giacca. A differenza di altri, Giacca su Porzus aveva parlato molto, dando tante versioni diverse, con una sola costante: "se li avessi di nuovo davanti, li accopperei ancora tutti". Morì, ottantaseienne, venerdì 22 gennaio 1999, nell'ospedale della cittadina di Sesana, in Slovenia. Era lui il comandante dei reparti che compirono l'eccidio. Il protagonista della vicenda, almeno il più visibile; non necessariamente il più consapevole.
Partigiani contro partigiani, con accuse reciproche, fino al tragico epilogo di sangue. Nella vicenda di Porzus si materializza violentemente quello che fu il problema centrale della Resistenza: la competizione, più che la collaborazione, tra i diversi gruppi ideologici. In più si aggiunsero le rivendicazioni territoriali slovene, che avevano una loro legittimità storica, ma che contribuirono ad arroventare una situazione già calda.
Ma non possiamo leggere queste vicende, accadute in quell'estremo lembo di territorio italiano tra le provincie di Udine e Gorizia, se prima non accenniamo brevemente alla nascita della Resistenza in Italia e ai suoi sviluppi.
Una storiografia oleografica ci ha spesso presentato la Resistenza come un movimento di popolo, una spontanea ribellione di massa contro l'oppressione fascista e nazista. Se vogliamo guardare più realisticamente ai fatti, partiamo da una data fondamentale: 25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo vota a maggioranza un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che, chiedendo il ripristino dei poteri degli organi costituzionali (Parlamento, Corona), di fatto sfiducia Mussolini, mettendo fine a diciotto anni di una dittatura che, se negli anni precedenti aveva goduto di un grande seguito popolare, aveva poi gettato l'Italia nella tragedia della seconda guerra mondiale. Il Re Vittorio Emanuele III fa arrestare Mussolini e nomina Primo Ministro il Maresciallo Pietro Badoglio. Sul 25 luglio, sulle effettive intenzioni degli uomini che causarono la caduta del Duce, si discute e si discuterà ancora a lungo. Ma resta un dato di fatto: il fascismo fu liquidato dai fascisti e dal Re, né le attività clandestine di gruppi antifascisti ebbero alcun peso sull'estromissione di Mussolini dal potere.
Le ambiguità di Badoglio, l'illusione di poter tenere a bada contemporaneamente gli Alleati e i tedeschi, le incertezze di un Re più preoccupato delle sorti della Corona che di quelle della Patria, si tradussero in un mese e mezzo di politica ambivalente e pasticciona, col solo risultato di consentire ai tedeschi, che avevano ben poca fiducia nella lealtà del nuovo governo italiano, di rinforzare massicciamente la propria presenza militare nella penisola (limitata, al 25 luglio, a quattro divisioni). Quando l'otto settembre di quel tragico 1943 fu reso noto l'armistizio firmato unilateralmente cinque giorni prima dall'Italia con gli Alleati, le truppe tedesche furono pronte a disarmare numerosi reparti dell'esercito italiano e ad arrestare e deportare centinaia di migliaia di militari dell'ex alleato, ora considerato traditore. Lo sbandamento delle forze armate in quei terribili giorni fu quasi totale, anche se non mancarono episodi di resistenza eroica da parte di unità che non accettarono supinamente il disarmo. La nascita di quell'ombra di stato che fu la Repubblica Sociale e la conseguente divisione dell'Italia tra repubblica fascista al Nord, e Regno del Sud (nei territori che via via venivano conquistati dagli Alleati risalendo la penisola), segnarono l'inizio della guerra civile in Italia. |
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Un casolare in una malga |
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Le prime bande
che
si
costituirono
in
funzione
antitedesca
e
antifascista
erano
formate
perlopiù
da
militari
che
erano
riusciti
a
sottrarsi
ai
rastrellamenti
massicci
che
le
truppe
germaniche
iniziarono
subito
dopo
l'otto
settembre,
o
che
non
accettarono
di
servire
nella
Repubblica
Sociale,
considerata,
a
ragione,
poco
più
che
un
paravento
dei
veri
padroni,
i
tedeschi.
Si
trattava
di
unità
isolate,
senza
collegamenti
tra
loro
e
senza
una
strategia
definita,
generalmente
guidate
da
ufficiali
che
si
sentivano
comunque
vincolati
dal
giuramento
di
fedeltà
al
Re.
Ma
la
Resistenza
assunse
ben
presto
caratteristiche
marcatamente
politiche;
l'armistizio
preludeva
inevitabilmente
a
uno
sganciamento
dell'Italia
dall'alleanza
con
la
Germania,
con
le
inevitabili
ritorsioni
che
sarebbero
venute
(come
vennero)
da
quest'ultima.
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I partiti politici antifascisti, che iniziavano a ricomparire dalla clandestinità al passo dell'avanzata degli Alleati sul territorio italiano, non potevano rischiare un altro "25 luglio", restando tagliati fuori dal gioco; le sorti della guerra erano segnate, la sconfitta della Germania era considerata inevitabile (anche se nessuno credeva che ci sarebbero voluti ancora quasi due anni di guerra) e si trattava di prepararsi per il futuro assetto che l'Italia avrebbe dovuto assumere al termine del conflitto. Il primo CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) sorse a Roma, già il 9 settembre 43. Lo fondarono Ivanoe Bonomi, indipendente, Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana), Alessandro Casati (partito liberale), Pietro Nenni (partito socialista), Mauro Scoccimarro (partito comunista) e Ugo La Malfa (partito d'azione). Aderì poi al CLN anche Meuccio Ruini, in rappresentanza della democrazia del lavoro. Al CLN Bonomi rivendicò il diritto di essere considerato come "l'unica organizzazione capace di assicurare la vita del paese". Era un'affermazione perlomeno ottimistica, se non poco realistica, considerando che al momento il CLN rappresentava poco più che sé stesso, in una situazione nazionale di estrema confusione. Ma era stato gettato il seme, e l'incitamento "per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni" veniva da un organismo politico e si sarebbe concretizzato nella costituzione di bande partigiane che esplicitamente si richiamavano agli ideali politici dei partiti di riferimento. I partigiani di Italia Libera aderivano al partito d'azione, una formazione d'élite che si sarebbe dissolta molto presto dopo la guerra, ma che raccoglieva uomini di grande valore come Parri, Lussu, Valiani, Garosci. Le Fiamme Verdi erano i partigiani di ispirazione cattolica, forti soprattutto nel Bresciano e nell'Udinese; con loro si unirono anche molti liberali e indipendenti. Le Brigate Garibaldi, braccio armato del partito comunista, furono il primo gruppo partigiano a darsi una struttura organica, istituendo a Milano, all'inizio del novembre 43, un Comando Generale, con Luigi Longo comandante generale e Pietro Secchia commissario politico. |
La Resistenza
non ebbe
in Italia un peso
militare determinante
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Sarebbe qui interessante anche approfondire le differenze tra Resistenza al Nord e al Sud, ma non vogliamo esulare troppo dal nostro tema. Da quanto finora esposto appare già evidente che il movimento partigiano ebbe, aldilà del denominatore comune della lotta contro fascisti e nazisti, la caratteristica di raccogliere gruppi politici tra loro antitetici, riflettendo quell'innaturale alleanza tra Unione Sovietica e mondo capitalista, resa inevitabile dalla comune lotta contro il nazismo. Tuttavia ci sono alcuni punti che è importante sottolineare, perché ci aiuteranno a capire meglio la genesi di eventi come la strage di Porzus. |
La Resistenza non ebbe in Italia un peso militare determinante, né lo avrebbe potuto avere, perché restò sempre un fenomeno elitario e comunque in buona parte legato, per la sua sopravvivenza, ai rifornimenti di armi, viveri, materiale, che gli Alleati iniziarono ad effettuare alla fine del 1943, dopo un primo incontro avuto in Svizzera da Ferruccio Parri con Allen Dulles, capo dei servizi segreti americani. Gli angloamericani del resto avevano interesse a mantenere il contatto e, per quanto possibile, il controllo sui gruppi partigiani, sia per operazioni di sabotaggio, di appoggio, di informazione, sia perché questi costituivano comunque la
longa manus
di quei partiti politici che avrebbero determinato la politica italiana del dopoguerra. E l'alleanza tra gruppi che sopra definivamo antitetici fece sì che nel movimento partigiano si trovassero contemporaneamente monarchici e repubblicani, liberali e comunisti, militari gelosi delle propria apoliticità contrapposti a quanti invece consideravano la Resistenza anzitutto un fenomeno politico. Una posizione del tutto peculiare era poi quella del partito comunista, che fu il partito che diede più combattenti di tutti gli altri alle forze partigiane, ma che era guardato con sospetto dai gruppi "alleati" per i suoi mai recisi legami con Mosca, e che a sua volta ricambiava con sospetto gli altri gruppi, ai quali via via attribuiva simpatie monarchiche, badogliane, capitaliste, se non addirittura
tout court
fasciste.
Se formalmente i gruppi partigiani dipendevano dal CLN e, per l'alta Italia, dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, costituito alla fine del 1943), delegato del CLN romano, di fatto la gran miscela di gruppi diversi generò anche due visioni ben diverse dello stesso concetto di
lotta partigiana. I gruppi che facevano capo alla democrazia cristiana e che raccoglievano tra loro anche la maggior parte delle prime bande autonome (di origine, come vedevamo, perlopiù militare), nonché liberali e spesso anche azionisti, furono sovente accusati di
attendismo
dai comunisti quando decidevano di evitare scontri diretti con le truppe tedesche, se la disparità di forze faceva presumere l'inutilità militare dello scontro. Viceversa furono una creatura comunista i GAP (Gruppi di Azione Patriottica), piccoli gruppi di non più di cinque - dieci elementi, che agivano soprattutto nelle città, con azioni veloci contro tedeschi e fascisti. Le azioni dei GAP spesso non avevano alcun peso dal punto di vista militare, ma il loro scopo era dichiaratamente quello di mantenere una tensione contro l'occupante e di mantenere sempre vivo lo spirito di lotta del combattente partigiano, nonché quello, meno dichiarato, di mostrare a nemici e alleati che il partito comunista sapeva colpire con decisione e durezza. Alle accuse di
attendismo spesso veniva controbattuto, accusando i comunisti di inutile spietatezza e cinismo, perché le azioni dei GAP provocavano poi l'inevitabile rappresaglia tedesca. L'attentato di via Rasella, con la conseguente strage alle fosse Ardeatine, resta in questo senso emblematico. Ma, se vogliamo fare un altro esempio, un attentato come quello che costò la vita al filosofo Giovanni Gentile fu un'altra azione decisa autonomamente dal partito comunista ed attuata dai GAP, in un quadro di una lotta sempre più crudele. Pensiamo di aver delineato abbastanza il quadro di frazionamento e di rivalità intestine che contraddistinse tanti momenti della lotta partigiana; ci scusiamo con gli amici lettori per la non breve digressione, peraltro indispensabile per inquadrare gli avvenimenti che andremo a rileggere. |
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Tito sul fronte jugoslavo |
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La Divisione Osoppo era nata nella notte fra il 7 e l'8 marzo '44, quando si erano incontrati al seminario di Udine don Ascanio De Luca, don Aldo Moretti e il parroco di Attimis, don Zani. In quella riunione era stata battezzata l'organizzazione clandestina con il nome del paese friulano, Osoppo, dove i patrioti risorgimentali combatterono gli austriaci. I partigiani che la componevano erano quasi tutti ex alpini, di tendenze democristiane, azioniste o liberali; i simboli della divisa erano il cappello con la penna d'aquila e il fazzoletto verde, "colore della speranza e delle nostre montagne, che ci distinguerà chiaramente dai fazzoletti rossi", come disse uno dei fondatori, Don De Luca.
La base per il reclutamento e le prime azioni fu l'eccentrico e disabitato castello Ceconi a Pielungo, nella val d'Arzino. I due capitani Grassi (Verdi) e Cencig (Manlio), e don De Luca (Aurelio) formarono i primi reparti, rifornendosi di armi attraverso i lanci aerei organizzati dalle missioni alleate. Si presentò subito la questione dei rapporti con le formazioni garibaldine. Se comune appariva la guerra all'occupante tedesco, diverse erano le posizioni relative al "dopo" e cioè alla sistemazione dei confini a conflitto concluso.
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I trattati del 1924 avevano inserito nel territorio italiano ampie regioni miste o a maggioranza slava; correzioni e rettifiche apparivano ovvie; ma le rivendicazioni slovene erano inaccettabili per gli osovani. La comunanza ideologica tra sloveni e garibaldini alimentava il sospetto che questi ultimi volessero realizzare un'annessione "di fatto". Le formazioni comuniste a loro volta ricambiavano la diffidenza, sospettando gli osovani di atteggiamenti reazionari, accusandoli di avere come primo scopo non la lotta ai nazifascisti, bensì la lotta ai comunisti. In questo clima, i periodici tentativi (ve ne furono una ventina) di creare un comando unificato finirono sempre nel nulla.
In particolare, un comando unificato si sarebbe dovuto costituire dopo un'incursione tedesca nel castello di Pielungo. Nel vecchio maniero gli osovani avevano rinchiuso alcuni militari tedeschi catturati in uno scontro. Reparti tedeschi, con un'improvvisa azione di commando, riuscirono a liberare i loro commilitoni. L'episodio ebbe conseguenze immediate: CLN udinese e regionale veneto (CRV) intervennero destituendo i due principali responsabili dell'Osoppo, Grassi - Verdi e De Luca - Aurelio, accusati di comportamento imprudente, non avendo predisposto sufficienti servizi di guardia, e affidarono al maggiore Manzin-Abba il comando provvisorio. Per i due capi osovani, arresto "sulla parola", in attesa di decisioni. Cosa per nulla gradita a quelli dell'Osoppo, anzi. Peggio ancora fu quando a metà agosto, in un incontro CLN-garibaldini-osovani a San Francesco, sopra Pielungo, fu stabilito il nuovo organigramma dell'Osoppo. Al comando militare Abba, del Partito d'Azione, suo vice il comunista Bocchi-Ninci, capo delle Garibaldi. Commissario il comunista Lizzero-Andrea, vice-commissario l'azionista Comessatti-Spartaco. In pratica il "comando unificato" era posto in mano ai comunisti e agli azionisti, considerati loro paravento. Le formazioni osovane reagirono con una specie di golpe, al quale CLN e garibaldini dovettero arrendersi. Destituiti gli azionisti Abba e Spartaco, i vecchi comandanti tornarono ai loro posti. Ribaltamento incruento per fortuna, ma che la diceva lunga, se gli uni e gli altri si fronteggiavano mitra in spalla.
D'altra parte difficilmente gli osovani potevano accettare quella che di fatto si sarebbe tradotta in un "inglobamento" nelle formazioni garibaldine, quando le stesse, poche settimane prima, in località Piancicco, avevano sottratto, mitra alla mano, un carico di armi destinate alla Osoppo, paracadutate dagli Alleati.
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Con grande
delusione degli
alleati Tito
attuò la "svolta
stalinista"
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Pur in questa continua contrapposizione, garibaldini e osovani riescono a combattere insieme quando, il 27 settembre 1944, irrompono da Tarvisio 30.000 uomini tra tedeschi, fascisti e cosacchi, ben decisi ad eliminare due zone libere, comprendenti 55 comuni sulle montagne e territori pedemontani al di qua e al di là del Tagliamento. Quest'oasi di libertà, che durava da poco più di due settimane, viene devastata con artiglieria, carri armati e due treni blindati. In tre giorni di battaglia nel triangolo Tarcento - Bergogna - Cividale i partigiani perdono oltre 400 uomini tra morti e dispersi. Il 2 ottobre i tedeschi attaccano nuovamente su tutto il fronte partigiano, da Meduno a Bordano, lasciando mano libera alle truppe cosacche, che si abbandonano ad ogni tipo di violenza. Le forze partigiane devono ripiegare. Il gruppo Brigate est della Divisione Osoppo si porta nella zona di Attimis, ponendo il proprio comando alle malghe di Porzus. In zona è presente anche la brigata Garibaldi - Natisone, che ha il suo comando nel vicino villaggio di Canebola. La fratellanza d'armi che ha visto garibaldini e osovani combattere assieme sta nuovamente svanendo, perché altri avvenimenti erano nel frattempo maturati. |
Il 6 settembre le truppe sovietiche, occupata la Romania, si erano congiunte all'armata popolare di Josip Broz (Tito). Con grande delusione degli alleati (che al futuro maresciallo avevano sacrificato il generale Mihailovic, leader della resistenza monarchica)
Tito attuò la "svolta stalinista". La pressione per definire la linea di frontiera lungo il Tagliamento si fece via via più accentuata. Risale al 9 settembre il messaggio di Kardelj, capo delle forze di liberazione slovene e luogotenente di Tito, ai capi comunisti dell'Alta Italia. Kardelj parlava di una "comune presa di potere nella regione Giulia di comunisti italiani e sloveni". Ad una prima missione segreta, a giugno, del plenipotenziario sloveno prof. Urban (Anton Vratusa) al CLNAI di Milano aveva fatto seguito una seconda trasferta a settembre, con precise richieste sulla delimitazione dei confini. Cadorna, comandante militare del CLNAI si era dichiarato contrario, mentre Longo era favorevole alle richieste slovene. Fu deciso un rinvio a guerra conclusa, ma le aspirazioni slovene e la disponibilità comunista non erano un segreto e il clima di diffidenza e sospetto ai confini orientali non poteva che aumentare. Contribuì poi a gettare benzina sul fuoco la lettera di Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con la quale si ordinava al comando della brigata Garibaldi - Natisone di porsi alle dipendenze operative del IX Corpus sloveno; la lettera conteneva anche il testo dell'ordine del giorno da approvare: "I partigiani italiani riuniti il 7 novembre in occasione dell'anniversario della Grande Rivoluzione (rivoluzione russa del 1917; n.d.a.) accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del Paese e instaurare anche in Italia, come già in Jugoslavia, il potere del popolo". Parlavamo in precedenza del potere più formale che sostanziale del CLN sulla condotta della guerra partigiana: di fatto un ordine operativo come quello sopra citato avrebbe dovuto pervenire, al più, dal comando del CLNAI. Se è doveroso riconoscere al partito comunista il più alto contributo, in uomini e in sangue, alla lotta di liberazione, è altrettanto doveroso sottolineare come il partito comunista perseguì sempre e comunque la sua propria politica, che si sostanziava nella cooperazione con gli altri partiti democratici (la cosiddetta
svolta di Salerno era la rassicurazione che il PCI seguiva una
via italiana al socialismo) attuata da Togliatti nel Regno del Sud e contemporaneamente nell'atteggiamento "internazionalista" che significava di fatto l'acquiescenza ai progetti sovietici che, nel caso dei confini orientali italiani, erano ben chiari e facevano conto sul leader jugoslavo Tito, allora considerato un docile stalinista. In questo clima non c'è da stupirsi che gli osovani respingano la proposta di integrarsi anch'essi nel IX Corpus: la proposta poteva avere un senso dal punto di vista operativo, per porre sotto un unico comando tutte le forze impegnate nella lotta contro fascisti e nazisti. Ma ormai l'ordine normale delle cose era stravolto: gli alleati erano tra loro avversari e sempre meno il comune nemico poteva cementare una fiducia che non esisteva più. Il 7 novembre 1944, mentre a Canebola i garibaldini festeggiano l'adesione alle formazioni di Tito, a Porzus il capitano De Gregori (Bolla), che già si trovava a forza ridotta perché molti partigiani erano stati inviati in licenza per la sospensione invernale delle operazioni, convoca i suoi e fa presente la situazione di tensione che si è creata con la Garibaldi - Natisone. "Vogliono farci sloggiare. Chi vuole andarsene è libero di farlo. Io resto". Restarono alle malghe in una ventina. |
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"Giacca" durante l'esilio in Jugoslavia |
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Chi volle l'eccidio del 7 febbraio? La risposta a tutt'oggi non è sicura. Di certo c'è l'esistenza di una lettera firmata da Kardelj, indirizzata a Vincenzo Bianchi, nome di battaglia Vittorio, rappresentante del Partito comunista italiano presso il IX Corpus, che era tornato da Mosca insieme con Togliatti, in cui lo si invita a liquidare le formazioni partigiane che, in Friuli, non accettano di porsi agli ordini del IX Corpus. Ed altrettanto certo è che, dopo il rifiuto degli osovani a integrarsi nel comando del IX Corpus sloveno, incominciano a circolare, sempre più insistenti, le voci di tradimento. Queste voci d'altra parte trovavano facile esca in alcuni contatti, peraltro mai negati dai partigiani osovani, sia con la Decima Mas, sia con il federale fascista di Udine, Cabai, che si fa latore di un'ambigua proposta dell' SS Sturmbannfuhrer (tenente colonnello) Von Hallesleben,
comandante
della
piazza
di Pordenone. In entrambi i casi si propone agli osovani di formare un fronte comune contro i comunisti e, nel caso della Decima Mas, contro comunisti e nazisti, in nome della difesa dell'italianità del Friuli.
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Erano
gli
ultimi
mesi
di
una
guerra
le
cui
sorti
erano
ormai
chiare
a
tutti
e
nell'atmosfera
un
po'
surreale
da si salvi chi può
le
proposte
stravaganti
non
mancavano.
Bisogna
sottolineare
che in entrambi i casi fu la Osoppo ad essere sollecitata alle trattative, che non furono una sua iniziativa; e in entrambi i casi le proposte furono respinte. Ma mentre le proposte tedesche furono dirette ed immediatamente rifiutate con due lettere (28 dicembre 1944 e 10 gennaio 1945) di don Aldo Moretti consegnate all'arcivescovo Nogara, che a sua volta le consegnò al federale Cabai, nelle proposte di Borghese, comandante la Decima Mas, non mancò chi vide lo zampino del maggiore Nicholson, che guidava la missione inglese in zona, e che avrebbe voluto così acuire, in chiave anticomunista, la divisione tra osovani e garibaldini. In questo groviglio ambiguo due cose sono certe: il comando della Osoppo non strinse alcun accordo con fascisti e nazisti, ma il fatto stesso degli avvenuti contatti servì ad alimentare il clima ormai avvelenato tra osovani e garibaldini. Più interessante, dal punto di vista sostanziale, ci sembra la vicenda di Elda Turchetti. Questa ragazza di Pagnacco, paese dove i tedeschi avevano depositi di carburante, viene segnalata da Radio Londra (probabilmente su analoga segnalazione del maggiore Nicholson) come spia al soldo dei nazisti. Spaventata, si rivolge a un amico partigiano garibaldino per protestare la propria innocenza. Questi l'accompagna da Mario Toffanin, Giacca, comandante dei GAP di Udine, che si comporta in modo decisamente strano. Se fosse stato sicuro che la Turchetti era una spia Giacca l'avrebbe senza dubbio uccisa; nel dubbio, l'avrebbe dovuta consegnare al proprio comando per gli accertamenti. Invece Elda Turchetti viene consegnata da Giacca a Tullio Bonitti, capo della polizia interna della Osoppo, che a sua volta conduce la ragazza a Porzus. Perché una sospetta spia veniva consegnata proprio alla formazione più volte accusata di mantenere ambigui rapporti col nemico? Ci fu chi disse che la Turchetti venne consegnata alla Osoppo per fare realmente la spia, per conto di Giacca contro la Osoppo. Difficile sapere la verità, perché la Turchetti fu uccisa a Porzus. |
A tredici anni
Giacca era già
operaio ai Cantieri
San Marco
di Trieste
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E siamo arrivati a parlare nuovamente di Mario Toffanin, Giacca.
Padovano,
nato
il 9
novembre
1912,
a
tredici
anni
era
già
operaio
ai
Cantieri
San
Marco
di
Trieste.
Iscritto
dal
1933
al
partito
comunista
clandestino;
sei
anni
dopo,
ricercato,
riparava
a
Zagabria.
Aderì
al
movimento
partigiano
di
Tito
fin
dall'invasione
delle
forze
dell'Asse
nell'aprile del 1941. I compagni jugoslavi dovevano avere in lui molta fiducia perché lo inviarono in missione prima alla federazione comunista di Trieste, poi a quella di Udine per "dare la sveglia" ai compagni italiani. Giacca non fu mai un partigiano combattente vero e proprio: trovò la sua collocazione migliore nei GAP. Del resto, era poco propenso alla disciplina di tipo militare, ma in compenso era fedelissimo al partito. E dalla federazione comunista di Udine gli arrivò l'ordine di "liquidare" il problema della presenza osovana a Porzus, con la specifica che si trattava di un ordine del comando supremo. L'ordine è del 28 gennaio 1945. Il tempo di organizzare l'azione, radunando un centinaio di uomini dei GAP a Ronchi di Spessa e il 7 febbraio Giacca sale alle malghe di Porzus, coadiuvato dai suoi luogotenenti Aldo Plaino e Vittorio Iuri. Pare che gran parte degli uomini fossero all'oscuro degli scopi della missione; molti ignoravano anche dove si stesse andando.
Il comandante osovano Bolla non si allarma per le segnalazioni delle sentinelle, che vedono salire alle malghe la lunga fila di uomini: era atteso un battaglione di rinforzo, richiesto al comando divisione Osoppo proprio per l'acuirsi delle tensioni tra garibaldini e osovani. Gli uomini di Giacca ostentano un'aria dimessa, nascondono le armi sotto gli abiti, pochissimi portano il fazzoletto rosso. Spiegano alle sentinelle di essere partigiani sbandati dopo uno scontro con i nazifascisti; ma mentre in due parlamentano con le guardie della Osoppo, il grosso degli uomini inizia ad accerchiare la zona. Poi, è la strage. Il capitano Bricco si salva, come vedevamo in apertura, solo perché viene ritenuto morto. Tra i venti partigiani portati via, si salvano solo Leo Patussi e Gaetano Valente, il cuoco, che, per aver salva la pelle, chiedono di essere accettati tra i garibaldini. Per gli altri non c'è scampo. L'irruzione alle malghe non aveva portato alcuna prova del "tradimento" della Osoppo, salvo la presenza in luogo della Turchetti; ma vedevamo prima che era stato lo stesso Giacca a consegnare la presunta spia agli osovani.
Le uccisioni durano fino al 18 febbraio nel Bosco Romagno, dove poi verranno ritrovati i corpi, mal sotterrati.
Dopo l'azione a Porzus, Toffanin, Plaino e Iuri, i triumviri che avevano guidato i battaglioni di GAP, fecero una relazione scritta, indirizzata alla Federazione comunista di Udine e al Comando del IX Corpus Sloveno, nella quale si sottolineava che l'azione era stata effettuata "col pieno consenso della Federazione del partito". La relazione (che, come si nota, non era indirizzata ad alcun organo della Resistenza) cercava di giustificare le uccisioni con affermazioni fantasiose (i comandanti Bolla ed Enea che al momento della fucilazione non trovano di meglio che gridare "viva il fascismo internazionale", i partigiani osovani "figli di papà" che "giacevano in comodi sacchi a pelo ed erano provvisti di tutti i conforti"), ma non allegava alcuna prova concreta.
Quanto è accaduto alle malghe inizia a delinearsi. Quando Mario Lizzero, commissario politico delle brigate Garibaldi in Friuli viene a sapere dell'accaduto va su tutte le furie e chiede che Giacca e i suoi luogotenenti siano fucilati. Non riesce ad ottenerlo, riuscirà solo a farli destituire dalle loro cariche di comando nei GAP. Ostelio Modesti e Alfio Tambosso,
segretario
e
vice
segretario
della
federazione
del
PCI
di
Udine,
forse
iniziano
a
rendersi
conto
che
è
stata
una
grave
imprudenza
affidare
la
missione
a
Mario
Toffanin,
ottimo
elemento
per
le
azioni
spicce
e
violente
dei
GAP,
ma
rozzo
e
violento
e
con
un
certificato
penale
già
ben
nutrito
di
reati,
furto,
rapina,
omicidio,
sequestro
di
persona,
che
nulla
avevano
a
che
vedere
con
azioni
militari
o
politiche.
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Il "comandante" Pertini |
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Ma adesso è troppo tardi per i ripensamenti e viene scelta la linea di condotta peggiore, quella di gettare tutta la croce addosso a Giacca, (che avrebbe mal inteso gli ordini) favorendone peraltro l'espatrio in Jugoslavia, insieme ad altri implicati nella strage.
Dopo che un'inchiesta del Comando Regionale Veneto non è approdata a nulla, il CLN di Udine decide la costituzione di una commissione d'inchiesta, formata da un rappresentante della Osoppo, uno della Garibaldi e presieduta da un membro del CNL stesso. Ostelio Modesti, il segretario del PCI di Udine, ha continuato la sua politica dello struzzo, opponendo inerzia al Comando Regionale che gli chiedeva di incontrare i responsabili della spedizione alle malghe. Ora la commissione del CLN dovrebbe chiarire le cose, ma si fa ancora tutto il possibile per ritardare, finché si arriva al 25 aprile, all'ordine di insurrezione generale, che fa passare ovviamente in secondo piano qualsiasi altra questione.
Sarà la magistratura ordinaria ad occuparsi della strage di Porzus, in seguito alla denuncia presentata il 23 giugno 1945 al Procuratore del Re di Udine dal Comando Divisioni Osoppo.
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Il processo ebbe inizio solo sei anni dopo, nell'ottobre 1951, davanti alla Corte d'Assise di Lucca, dove era stato trasferito per "legittimo sospetto" e motivi di ordine pubblico e dopo un palleggiamento tra magistratura ordinaria e militare. Il dibattimento d'appello si svolse a Firenze tra l'1 marzo e il 30 aprile 1954. Dopo quasi un decennio dalla strage di Porzus veniva resa definitiva la sentenza che condannava Giacca e i suoi due luogotenenti all'ergastolo. Tutti e tre erano riparati da anni in Jugoslavia. Chi pagò un conto probabilmente non suo fu Ostelio Modesti, condannato a trent'anni, di cui nove scontati effettivamente. Parimenti conobbero il carcere altri imputati minori, che nessuno si era preoccupato di far espatriare, mentre per effetto di successive amnistie e indulti le condanne all'ergastolo vennero definitivamente cancellate il 15 maggio 1973. A questo punto Mario Toffanin avrebbe potuto tranquillamente tornare in patria; ma i suoi conti con la giustizia non si limitavano a reati politici o comunque connessi ad eventi della guerra partigiana. L'ex gappista, stabilì la Procura della Repubblica di Trieste, doveva scontare trent'anni per effetto di cumulo di pene definitive, irrogate per una serie impressionante di reati, dal sequestro di persona, alla rapina aggravata, all'estorsione, al concorso in omicidio aggravato e continuato. E Toffanin restò in Jugoslavia, rilasciando spesso interviste in cui rivendicava la legittimità della sua azione a Porzus, volta all'eliminazione di "spie e traditori".
Le inchieste e l'interminabile processo avevano comunque lasciato irrisolto il problema centrale: chi aveva dato l'ordine dell'azione a Porzus? E l'ordine era di uccidere, o la parola liquidare andava diversamente intesa? Come dicevamo sopra, l'atteggiamento del PCI di Udine, nella persona del segretario Modesti, fu il peggiore, perché volle difendere a tutti i costi una causa persa, probabilmente temendo più gravi ripercussioni per tutto l'apparato di partito e per la stessa operatività delle brigate Garibaldi, che peraltro nulla autorizza a dire che fossero implicate coi loro comandanti nella strage. Modesti sbagliò con le sue mille reticenze, ma ebbe la dignità di farsi in silenzio anche il carcere, forse non meritato, ma subìto in nome di una disciplina di partito che si può disapprovare, ma che, laddove viene pagata di persona, è degna di rispetto.
Francamente ci appare incredibile pensare come mandanti della strage di Porzus lo stesso PCI o il comando della Garibaldi - Natisone; se esponevamo ampiamente tutti i contrasti profondi che dividevano garibaldini e osovani, non per questo crediamo che questi contrasti potessero sfociare in atti di selvaggia crudeltà, eseguiti a freddo e senza altra motivazione che l'odio ideologico. Piuttosto ci pare credibile l'opinione espressa da Alberto Buvoli, direttore dell'Istituto Friulano per la Storia del movimento di Liberazione, che in un'intervista del 30 luglio 1997 al Corriere della Sera diceva: "L'ordine di intervenire a Porzus venne dagli Sloveni. La responsabilità della federazione comunista di Udine è semmai di aver affidato il compito a Giacca, noto squilibrato, con una fedina penale già sporca. Quando Lizzero, commissario politico delle Brigate Garibaldi venne a sapere della strage, chiese che Giacca e i suoi venissero fucilati… ma Giacca era protetto dagli sloveni". Ci permettiamo di aggiungere una notazione a quanto dichiarato da Buvoli: con ogni probabilità il comando del IX Corpus diede l'ordine dell'azione, imponendo anche che fosse compiuta dal Toffanin, che era comunque un loro uomo, da loro proveniva e da loro, non a caso, tornò. Giacca era il più qualificato per eseguire un ordine nello stile di chi, non scordiamolo, inventò le foibe come strumento di dialettica politica con gli oppositori. A poco vale obiettare che l'irrilevante numero di osovani non avrebbe potuto costituire alcun ostacolo all'eventuale dilagare fino al Tagliamento del IX Corpus. Se il pericolo non esisteva sotto il profilo militare, era comunque da eliminare una sacca di dissidenza, altrettanto pericolosa in un'ottica di cieco fanatismo politico. A questo punto la funzione del PCI di Udine sarebbe stata solo e unicamente quella di "passacarte", perché neanche la scelta di Toffanin come esecutore era loro. Purtroppo, come dicevamo, una disciplina di partito rigida e assoluta impedì di fare piena luce. Ma riteniamo che la nostra ipotesi non sia del tutto priva di fondamento.
E qui potremmo chiudere questa breve rilettura di una delle pagine più tristi della nostra storia nazionale. Ma c'è un ultimo mistero, questo destinato a restare irrisolto. Cosa spinse Sandro Pertini nel luglio del 78, appena eletto Presidente della Repubblica, a concedere la grazia a Giacca? L'ex gappista, lo ricordavamo prima, aveva un pesante debito con la giustizia per reati ordinari, essendo estinte le pene per i fatti di Porzus da provvedimenti di successivi indulti e amnistie. Il settimanale L'Espresso pubblicò, il 25 settembre 1997, un'inchiesta al proposito, ma si scontrò con una diffusa epidemia di amnesia, malattia che aveva colpito il consigliere giuridico di Pertini, il segretario generale del Quirinale, perfino il funzionario della presidenza che si occupava all'epoca proprio delle pratiche di grazia. Quanto al guardasigilli dell'epoca, il professor Bonifacio, era già morto da diversi anni. Mistero. Tuttavia Mario Toffanin, comandante Giacca, nonostante la grazia restò in Slovenia. Forse perché la sentiva come la sua patria, forse perché temeva di fare qualche spiacevole incontro rientrando in Italia.
Bibliografia
- Porzus, due volti della Resistenza, di Marco Cesselli - Ed. La Pietra, Milano 1975
- Porzus, dialoghi sopra un processo da rifare, di Alexandra Kersevan - Ed. Kappa Vu, Udine 1997
- L'Italia della guerra civile, di Indro Montanelli e Mario Cervi - Ed. Rizzoli, Milano 1983
- L'esercito di Salò, di Giampaolo Pansa - Ed. Mondadori, Milano 1970
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